Il Festival di Sanremo ci regala sempre grandissime emozioni, alcune volte in formato doppio quando, per i più svariati motivi, due artisti decidono di unire le forze per questa occasione speciale e rendere indimenticabile il brano portato in gara. O quantomeno queste sono le intenzioni.
Non stiamo parlando di un duo come gli immarcescibili Al Bano e Romina Power, gli incontenibili Righeira o i mai dimenticati Jalisse, bensì di sinergie più o meno probabili come ad esempio il vocione di Fausto Leali e l’algida sensualità di Anna Oxa che con la loro Ti lascerò sbancarono la catastrofica edizione del 1989 o il «trottolino amoroso, dudù dadadà» cantato dal maestro Amedeo Minghi e Mietta che divenne il vero tormentone del 1990.
La storia del Festival più amato-odiato dagli italiani è costellata di duetti, ma sono pochi, in effetti, quelli che hanno lasciato un gran ricordo, per tale ragione abbiamo voluto stilare la nostra personalissima classifica dei 10 peggiori duetti in gara al Festival di Sanremo, performance più o meno dimenticate che però portiamo nel cuore come momenti di vivido imbarazzo.
Sabrina Salerno e Jo Squillo – Siamo donne (1991)
Sicuramente una delle esibizioni più ricordate del Festival ligure, ma soprattutto quella più ricordata dal pubblico presente in sala, che può permettersi di dire «io c’ero», fu quella di Sabrina Salerno e Jo Squillo nel 1991. Il siparietto di tre minuti interpretato dalle due sulle note di Siamo donne sicuramente sovrasta una canzone che, nelle intenzioni di Jo Squillo (autrice del testo), avrebbe dovuto portare al teatro Ariston un nuovo manifesto femminista a ritmo di musica pop.
Sabrina e Jo però riescono a fare qualcosa di unico e irripetibile che va oltre l’appiccicoso ritornello («siamo donne, oltre alle gambe c’è di più»), mostrando una un mini abito giropassera e l’altra un bikini troppo stretto coperto da una giacca indossata a caso, in un baccanale di sobbalzi di tette, dimenamenti di cosce e vocine stonate. Scosciata.
Giorgio Faletti e Orietta Berti – Rumba di tango (1992)
Che Giorgio Faletti nella sua carriera abbia dato prova di essere stato un artista poliedrico e di sapersi muovere con grazia tra il serio e il faceto non è una novità, inoltre la sua passione per la musica e il canto non ci sono nascoste, vista la sua produzione discografica e la sua più riuscita impresa Sanremese con Signor Tenente del 1994.
Questa Rumba di tango però, interpretata in coppia con la sempre materna Orietta Berti, lascia un po’ perplessi, e lascia perplesso anche il pubblico che non capisce e scarta immediatamente il brano. A difesa di Giorgio Faletti, autore di musica e testo, va detto che quantomeno ha osato andare oltre l’ingessato classicismo del Festival portando la musica da balera sul palco dell’Ariston, sforzo che però non è stato particolarmente apprezzato. Intrepida.
Bobby Solo e Little Tony – Non si cresce mai (2003)
Operazione nostalgia andata dannatamente a buon fine con questo maldestro duetto tra i due capisaldi del rock’n’roll de’ noantri, anche se in questa veste, più che due scatenati Elvis Presley, ricordano delle versioni senili di Tony Bennet. Bobby Solo e Little Tony si rimettono in gioco nel 2003 con un brano sull’amicizia che vuole sfatare il mito della loro storica rivalità negli anni ’60, come Beatles contro Rolling Stones. Ci abbiamo mai creduto? Ma soprattutto a chi interessa nel 2003? Certo che vederli insieme sul palco a fare le stesse mosse di quarant’anni prima fa un po’ sorridere, ma d’altronde è praticamente l’unica cosa che sanno fare.
Scritta dal compianto Giancarlo Bigazzi la canzone ha il difetto di puntare solo sui suoi interpreti, tralasciando tutto il resto. A sua discolpa Non si cresce mai professa un’inconfutabile verità: «Un amico è due birre al bar, parlare poco, ma capirsi già». Veritiera.
Nino D’Angelo e Maria Nazionale – Jammo jà (2010)
Nel 2010 la “quota Napoli” al Festival viene riempita dall’ex caschetto biondo più famoso d’Italia, Nino D’Angelo, accompagnato da un’altra napoletana doc, Maria Nazionale. La coppia ci canta della propria città, o per essere più precisi dell’urlo dei suoi abitanti, scostando la quotidianità e la bellezza del luogo dai soliti luoghi comuni de «’a munnezza, cù sta mafia cu ‘o mandulino».
Lo sforzo potrebbe anche essere meritevole, ma cade troppo spesso nella retorica motivazionale, perdendo lungo la strada l’intento vero del testo. A complicare le cose ci pensa la musica in sottofondo: un brano in levare con accenni mediorentali che trasforma improvvisamente l’Ariston in un chiassoso happening senza senso, accentuando l’insofferenza dell’ascoltatore medio. Rumorosa.
Danny Losito e Las Ketchup – Single (2004)
Las Ketchup al Festival di Sanremo?! A fare cosa poi non si riesce a capire, visto che il trio di sorelle si limita ad ancheggiare sul palco vocalizzando sul “complicatissimo” ritornello in cui viene ripetuta la sola parola «single» (che, guardacaso, dà anche il titolo alla canzone). Quello che più lascia perplessi è l’interpretazione di Danny Losito, 50% dei Double Dee, duo dance che negli anni ’90 ha sfornato diversi singoli ballabili e godibili, che ha successivamente tentato di affermarsi come cantante pop iniziando proprio dal palco dell’Ariston (ci riproverà poi con Music Farm nel 2005 e The Voice of Italy nel 2013 sotto la guida di Piero Pelù).
La canzone è una base funk su cui Losito si muove e canta che pare una brutta fotocopia mossa di Jay Kay dei Jamiroquai (con tanto di berrettino d’ordinanza). Single inizia con un incipit perfetto: «E mi manca la lasagna che mi cucinavi tu», salvo poi perdersi in un mare emotivo e artistico di niente. Noi comunque continuiamo a chiederci che cosa cazzo ci facciano le tre Las Ketchup su quel palco. Dubbiosa.
Francesco e Giada – Turuturu (2001)
Largo ai giovani e nel 2001 arrivano Francesco Boccia e Giada Caliendo, che presentano un brano dall’enigmatico titolo di Turuturu. Canzone di per sé banalotta e trascurabile se non fosse per questo maledetto «turuturu» che si conficca in testa e cerca di scombinare il nostro vivere quotidiano. Una canzone adolescenziale in stile fine anni ’90 che arriva in ritardo infilandosi nei primi del 2000, servita fredda per un pubblico nutrito a Dawson’s Creek e Smallville.
Vi state chiedendo come abbiano fatto a raggiungere il palco con una canzone che si chiama Turuturu? Rispondiamo con un’altra domanda: sapete chi sono Il Giardino dei Semplici? Vi basti sapere che sono una storica band italiana attiva dagli anni ’70, e che tra i componenti troviamo Gianfranco Caliendo, padre di lei, e Tommy Esposito, produttore di lui. Non abbiate però l’ardire di credere che finito Sanremo la canzone e i suoi interpreti siano svaniti nel nulla. Il brano tradotto in spagnolo e portoghese vende molto bene in America Latina (buongustai!). Boccia diventa principalmente autore e sbanca Sanremo grazie a Grande amore cantata da Il volo e vincitrice dell’edizione del 2015. Giada continua ad essere prodotta dal padre. Famigerati.
Francesco e Roby Facchinetti – Vivere normale (2012)
Un inno alla famiglia targato Facchinetti. Proprio loro, Roby “Pooh” Facchinetti e suo figlio Francesco, che per voi lettori di Orrore a 33 Giri sarà sempre e solo DJ Francesco. I due, spinti da non so quale motivazione, si cimentano a cantare una canzone che, sorpresa sorpresa, parla del rapporto tra padre e figlio.
Il risultato è l’ennesimo amalgamarsi di belle parole e buoni sentimenti che considerato lo standard sanremese può anche passare, ma in questo caso più che emozionare lascia lo spettatore indeciso se ridere o tremare, grazie anche agli sguardi complici dei due. Alla fine quello che rimane è la sensazione che i Facchinetti si stiano sfidando a chi riesce a prendere la stecca peggiore. Meglio presi singolarmente e in piccole dosi. Stonata.
Gigi D’Alessio e Loredana Bertè – Respirare (2012)
Uno dei duetti più assurdi e male assortiti della storia del Festival fu quello tra lo scugnizzo Gigi D’Alessio e quel che resta di una Loredana Bertè sempre più vittima del proprio personaggio e dei propri demoni. Respirare esce dalla penna del maestro napoletano e nonostante suoni come una canzone a caso del suo repertorio, da navigato marpione afferma di averla scritta proprio pensando alla Bertè per omaggiarne la forza e la natura di guerriera.
Dichiarazioni di circostanza a parte, il brano lo si ricorda per la storia travagliata e sfacciatamente fortunata da rasentare il ridicolo: prima del festival Gigi ne fece ascoltare un piccolo estratto, cosa contro il regolamento come sanno anche i bambini, ma si salva in extremis giustificandosi che la porzione di traccia pubblicata era solo strumentale. Poco male perché la canzone vien subito scartata ma viene ripescata per la finale in cui si posiziona incredibilmente quarta. Che sia solo culo o è anche merito di conoscenze influenti?
Respirare non lascia niente all’ascoltatore, tranne il gracidare della voce di Loredana Bertè che si contrappone alla voce da neomelodico arrivato di Gigi D’Alessio. Se volete farvi ancora più male consigliamo l’ascolto della versione remixata da Fargetta più fastidiosa dell’originale. Inesplicabile.
Brigitta e Benedicta Boccoli – Stella (1989)
Spacciate come le nuove Gemelle Kessler, le sorelle Brigitta e Benedicta Boccoli si ritrovano catapultate dagli studi di Domenica In al palco del Festival di Sanremo a cantare Stella, un’inutile canzoncina prodotta dal sempiterno Claudio Cecchetto e scritta da, tenetevi forte, Lorenzo “Jovanotti” Cherubini, che proprio in quell’edizione si classifica quinto con l’intramontabile Vasco.
Certo, fa un po’ simpatia vedere le due giovani sgambettare sul palco, stonando tutta la canzone mentre spericolatamente cercano di mimare pure alcuni passaggi del testo con incerti passi di danza. Il vero problema è che il brano non ha alcun tipo di potenzialità, arrivando a sembrare un patetico tentativo di Cristina D’Avena di darsi alla musica dance da quattro soldi. Le due sorelle che negli anni si sono rifatte una carriera decisamente più fortunata (e non a caso lontana dalla musica), possono dormire sonni tranquilli perché il Festival del 1989 verrà ricordato sempre e solo per una cosa: la conduzione di Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi, che con abilità sarebbero riusciti a sminuire anche brani peggiori. Fortunate.
Beppe De Francia e Bea Giannini – Una storia da raccontare (1990)
È il 1989 quando i Kaoma portano in Italia tutto lo “splendore” della musica latinoamericana con la loro Lambada, e il duo formato dallo sconosciuto Beppe De Francia e dalla un po’ meno sconosciuta Bea Giannini (suo il 45 giri Io questo disco me lo comprerei del 1985, pubblicato con il nome di Beatrice) ne approfitta subito inserendo dei continui riferimenti al tormentone brasiliano al limite del plagio.
A condire il misero splendore di tutto questo ecco che arriva un balletto scoordinato improvvisato senza motivo dei due interpreti che coinvolge persino il direttore e tutta l’orchestra in un tripudio di mosse replicabili solo dai più impacciati teenager nelle discoteche la domenica pomeriggio. Decisamente più convinta l’interpretazione di Beppe, mentre la povera Bea a tratti sembra chiedersi: «Che cosa diavolo ci faccio qui?». Al giorno d’oggi una canzone così la possiamo tranquillamente ascoltare suonata dalle orchestre nelle sagre paesane, impensabile sul palco dell’Ariston. Sfacciata.
Stefano Bissoli e Vittorio “Vikk” Papa