L’edizione del Festival di Sanremo del 1989 rappresenta in modo perfetto lo zenit di tutto quello che il lettore più fedele di Orrore a 33 Giri va cercando quando naviga su questo sito: un tale concentrato di demenzialità, ridicolaggine e perle nascoste che non ha eguali nella lunga e gloriosa storia del Festival della Canzone Italiana. Questo primato fu raggiunto grazie ad una combinazione di fattori che andarono al di là della sola musica e che ebbero la sfortunata coincidenza di verificarsi tutti in quel funesto anno.
Sotto le mani di Adriano Aragozzini (che guidò anche la direzione artistica), subentrato alla società di produzione Publispei, il 39° Festival di Sanremo si trasformò in una vera e propria macchina dello spettacolo dai toni kolossal, tanto che se ancora oggi la kermesse risulta essere patinata, tronfia nei modi e nelle sue scenografie e sempre meno interessata alla musica possiamo trovare negli anni ’80 e specialmente in questa edizione un grosso contributo a questa trasformazione.
Furono tanti i cambiamenti e le novità che caratterizzarono questa edizione: l’utilizzo per l’ultima volta del sistema di voto legato al concorso Totip, l’uso del playback che avrebbe lasciato il posto al ritorno dell’orchestra l’anno successivo e, evento da non sottovalutare, per la prima volta in assoluto la competizione veniva interrotta dalla presenza degli spot pubblicitari, anche se il vero e proprio tripudio d’immagine e promozione lo si toccò nella quarta puntata con la presenza sul palco di una lunga passerella di ospiti (tra i quali Franco e Ciccio, Michele Placido, Lino Banfi e Fabrizio Frizzi per citare qualche nome), invitati con il solo scopo di promuovere futuri programmi che sarebbero andati in onda sulla Rai da lì a poco.
Ultime ma non ultime furono anche due innovazioni in campo puramente musicale: un lungo tour promozionale intitolato Sanremo in the World atto a portare la musica di quell’edizione in giro per il mondo (e visti i brani in gara ci dispiace davvero per il resto del mondo) e l’introduzione (unico caso in assoluto nella storia del programma) della categoria Emergenti nella quale vennero selezionati artisti che già avevano alle spalle una discreta carriera ma che, nelle intenzioni dell’organizzazione, erano ancora lungi dall’essere affermati e proprio per questo motivo venne ideata una manifestazione intitolata Aspettando Sanremo, una gara condotta da Claudio Lippi che vide la partecipazione di 32 artisti di cui solo 8 avrebbero avuto accesso al Festival vero e proprio che sarebbe iniziato da lì a una settimana.
Tuttavia tutto questo frullato di novità ed imponenza è solamente il contorno che serve a rendere più appetitose le portate principali, vale a dire i contenuti, le canzoni, gli artisti e le polemiche che quei 5 giorni di Festival (cosa scontata oggi ma ennesima novità per l’epoca, con il pubblico italiano non abituato a una così lunga durata) si portarono dietro e che nonostante tutto tennero incollati una media di 20 milioni di spettatori, tanto che la finale sta al terzo posto tra le più viste di sempre.
La conduzione
Una cosa in tutto questo marasma è certa: la conduzione di quell’edizione del Festival può fregiarsi della nomea della peggiore della storia senza margine di errore.
Nelle intenzioni sarebbe dovuto esserci Renato Pozzetto al timone di tutto e a dargli man forte vi era un quartetto inedito composto da annoiati figli di papà: Rosita Celentano (all’epoca compagna di Jovanotti), Danny Quinn (figlio di Anthony), Gianmarco Tognazzi e Paola Dominguin (sorella di Miguel Bosè), tutti ragazzi giovani con un cognome sulle spalle molto ingombrante tanto che la stampa lì soprannominò “i figli d’arte”. Tuttavia il forfait dell’attore, i rifiuti di Enrico Montesano e Renzo Arbore di entrare in corsa e l’imminente inizio del Festival portarono all’inevitabile conclusione di promuovere il quartetto a conduttori veri e propri nonostante non avessero alcuna esperienza nel mondo della conduzione televisiva. A titolo di cronaca anche Christian De Sica avrebbe dovuto far parte del progetto, poi rifiutato in quanto non gradiva molto l’etichetta di figlio d’arte, ma forse anche conoscendo le capacità artistiche dei quattro rampolli.



Il risultato fu terrificante oltre ogni previsione possibile: lapsus, gaffes e dimenticanze del copione accompagnarono ogni presentazione, la sintonia tra i quattro non esisteva assolutamente e molto spesso s’interrompevano a vicenda o si parlavano sopra l’un l’altro. Un esempio su tutti? La sigla di quell’anno era Piove di Domenico Modugno e venne annunciata da Paola Dominguin come interpretata da Renato Modugno. Tanto basta per capire quanto disperata era la situazione.
Inesperienza? Grandissima emozione (come commenteranno loro stessi in futuro)? Produzione poco attenta? Semplice mancanza di capacità? Poco importa quale sia stata la causa predominante, certo è che un primo tassello fondamentale e indimenticabile è stato tracciato.
I superospiti stranieri e gli interventi comici
Gli ospiti a Sanremo, si sa, sono la ventata d’aria fresca che serve a spezzare quel piccolo accumulo di noia che si forma quando si assiste a una passerella di canzoni nuove che ancora bisogna assimilare e fare proprie. Ma in quell’edizione del 1989 la ventata d’aria assunse connotati di leggera turbolenza.
Nulla da dire riguardo ai superospiti musicali visto che, tra i tanti, sul palco fecero la loro bella figura i Depeche Mode, Boy George, Little Steven, gli Europe, Ray Charles insieme a Dee Dee Bridgewater, Elton John, Simply Red, Ofra Haza, Kim Wilde, Ivana Spagna e anche i Bros. Ma sul fronte degli interventi comici se ne videro delle belle grazie alla presenza del Trio Lopez-Solenghi-Marchesini che finì nel mirino della Radio Vaticana, dell’Osservatore Romano e persino del Partito Liberale per uno sketch giudicato blasfemo con Solenghi vestito da San Remo, ma il vero mattatore di quell’edizione del Festival fu Beppe Grillo che si abbattè sul Festival come un uragano improvviso con un monologo incendiario (e solo in parte concordato).
L’allontanamento dalla Rai di 3 anni prima non aveva fatto altro che esacerbare il suo umorismo sarcastico e pungente; in una decina di minuti Grillo prende per il culo il Festival («uguale all’altro anno e con qualche schifezza in più»), i telespettatori («18 milioni di rincoglioniti»), dà dei falliti ai giornalisti presenti (e a se stesso) perché sono ridotti appunto a venire a Sanremo (anche se non capiamo perché ora si lamenti di essere al Festival quando dimentica che nel 1978 fu uno dei conduttori per poi tornarci regolarmente come ospite nel 1985 e nel 1988), attacca a più riprese la classe politica dell’epoca (su tutti il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga apostrofandolo come salma), demolisce Al Bano e i suoi vaneggiamenti ambientalisti nella canzone in gara Cara Terra mia («Al Bano ha fatto una canzone a favore della natura con quello che alla natura ha fatto lui!»), dà della «scoreggina» a Jovanotti, usa parole che risuonano piene di pietà per i “figli d’arte”, attacca il direttore della Rai (Biagio Agnes), il produttore del Festival (Adriano Aragozzini) e lo sponsor (Pietro Barilla), pronuncia l’immortale frase «là dove c’è la televisione non esiste la verità» e, finale perfetto, dà del «coglione» al giornalista Sandro Mayer per la rivoltante intervista a Marco Fiora (bambino di soli nove anni, vittima di un rapimento durato 17 mesi) invitando i presenti ad alzarsi in piedi se la pensavano come lui (cosa che in diversi fecero tranne le prime file). Pioveranno in seguito diverse querele ma la storia del Festival da quel momento ha un altro grande racconto da tramandare ai posteri.
Le canzoni e i cantanti in gara
Ed eccoci al punto cruciale, l’alfa e l’omega, dove si può trovare tutto e il contrario di tutto. La stampa definì l’immensa rosa delle canzoni in gara, che con 48 brani detiene il record nella storia del Festival, come un gigantesco supermarket dove poter trovare di tutto: “al Festival c’è tutto. Ci sono l’anziano e il giovanissimo, gli sposi e le sorelle, il non vedente e il ciccione, la cugina dell’attore e il figlio d’arte, i napoletani e i milanesi, la melodia, la droga, Gesù, il buco nell’ozono, l’effetto serra, le mamme, il sesso, la prima volta, la droga e il maiale”. E non si stenta a crederlo perché parlare di tutti i nomi presenti, degli esordi, dei grandi ritorni, delle perle da stanare senza riempire pagine su pagine sarebbe un’impresa titanica.
Da chi cominciare? Sicuramente dai veri tormentoni di quell’anno: “Esatto!” del mitico Francesco Salvi che portò in scena la più assurda esibizione della storia del Festival arrivando settimo e la celeberrima e già ampiamente trattata “Vasco” (arrivata in quinta posizione) di un Jovanotti passato in un battibaleno da rapper a rockettaro con tanto d’inopportuno cappello da cow boy e mossette pelviche. Poi come non citare “Il babà è una cosa seria” di Marisa Laurito (arrivata dodicesima), Gigi Sabani che tenta la carta della canzone impegnata con “La fine del mondo” (finita penultima) scrittagli dal presenzialista Toto Cotugno attivo con altri due brani in gara: “Se non avessi te” cantata da Fiordaliso e Claudio Cabrini (sesta) e “Le mamme” con cui arrivò secondo, il che è tutto dire. Sbirciando bene troviamo anche Raf che consegnò al grande juke-box della musica italiana la celebre “Cosa resterà degli anni’80” che però non impressionò la giuria arrivando solo quindicesima. Vogliamo andare avanti?
I grandi nomi che avrebbero dovuto elevare il valore artistico della manifestazione lasciano il segno più o meno quanto la tappezzeria del teatro Ariston, finendo tutti relegati nella parte bassa della classifica (a parte i sempiterni Ricchi e Poveri arrivati sesti e Riccardo Fogli quarto): Gino Paoli, Ornella Vanoni, Peppino Di Capri, Fred Bongusto, Gigliola Cinquetti, Tullio De Piscopo, Enzo Jannacci e il grandissimo Renato Carosone che con i suoi 69 anni d’età fece la sua prima e unica comparsa al Festival, ricevono tutti una pacca sulle spalle e un “riprovateci”.
In vetta alla classifica finisce l’inedita coppia Fausto Leali e Anna Oxa con “Ti lascerò”, seguita al terzo dagli inossidabili Al Bano e Romina Power che con la già citata “Cara Terra mia” si cimentano con il tema dell’inquinamento. E poi lì, al nono posto e sottolineiamo nono posto come un marchio d’infamia, troviamo Mia Martini che dopo 5 anni d’ostracismo da parte dell’ambiente musicale e dagli addetti ai lavori guadagna il premio della critica e un posto nella storia con la splendida “Almeno tu nell’universo”. Una menzione rapida ma doverosa merita Giuni Russo con la sua “Morirò d’amore” che fu inspiegabilmente bocciata dalla commisione artistica.
Arrivati alla fine di questo turbinio di nomi se vi sentiste la testa sottosopra sappiate che quella elencata è solo la categoria dei Campioni; tra gli Emergenti come non segnalare Paola Turci, il futuro vincitore dell’edizione 1992 Aleandro Baldi, Gepy & Gepy, Stefano Borgia con un brano scritto a quattro mani con indovinate chi? Toto Cutugno! E ovviamente la Steve Rogers Band, ovvero l’ex band spalla di Vasco Rossi il cui nome fa capolino anche tra le Novità come co-autore del brano “Tentazioni” degli indimenticabili Sharks.
In questa categoria non possiamo esimerci dal citare la vincitrice Mietta, la nostra amata Jo Chiarello (seconda), la rocker Aida Satta Flores e i Ladri di Biciclette capeggiati da Paolo Belli, oltre a delle vere e proprie pepite sanremoesi già trattate in passato quali “Bastardo” di Gloria Nuti, “Pelle di luna” di Gitano e “Stella” delle sorelle Boccoli (e qui fece capolino la firma di Jovanotti invece).
Se siete sopravvissuti indenni alla fine di questo elenco interminabile di nomi, titoli di canzoni, eventi raccontati, informazioni e quant’altro vuol dire che ora conoscete la storia del Festival di Sanremo del 1989. Una strampalata edizione all’insegna del pacchiano e dell’inutile se vista dagli occhi di tanti altri, ma uno spettacolo ghiotto e succulento per gli amanti del diversamente bello.