Teddy Reno, Chum Kem e la nascita del rock’n’roll in Cambogia

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Quando si menziona la Cambogia la prima cosa che viene in mente è il gigantesco tempio di Angkor Wat o magari la sanguinosa dittatura dei Khmer Rossi guidati da quel sanguinario di Pol Pot, o ancora il sarcastico brano dei Dead Kennedies Holiday in Cambodia. Certamente nessuno pensa al rock’n’roll. 

Il periodo successivo all’indipendenza dalla Francia fino all’inizio della feroce dittatura comunista (quindi da circa metà degli anni ’50 alla fine degli anni ’70) vide un fortissimo periodo di rinascita culturale in Cambogia che coinvolse anche la musica. Da una parte il dominio francese aveva lasciato in eredità la musica jazz, Edith Piaf e, per i più giovani, una pletora di dischi yéyé (cioé quella commistione tra il rock’n’roll più leggero e le melodie pop, tipo le primissime cose di Rita Pavone, Little Tony e Adriano Celentano per intenderci), dall’altra l’invasione statunitense del vicino Vietnam portò nell’etere, grazie alle radio militari statunitensi, un’esplosione di rock’n’roll americano e britannico. La miccia che innescò la rivoluzione del rock cambogiano arrivò però dall’Italia, ma andiamo con ordine.

Accadde che Chum Kem, un giovane ragazzo cambogiano con la passione per il canto, venne a studiare ceramica a Roma e qui, nel 1960, fu scoperto in un locale da Teddy Reno che all’epoca aveva quasi abbandonato il canto diventando un conduttore televisivo di successo, ma con il progetto in cantiere di tornare alla musica come discografico. Fiutando le potenzialità di questo interprete dalle fattezze esotiche decise di prenderlo sotto la sua ala protettrice facendolo partecipare al noto programma televisivo Souvenir che proprio lui conduceva e procurandogli anche una piccola parte nel film Un mandarino per Teo di Marco Mattioli al fianco di Walter Chiari, Sandra Mondaini e Ave Ninchi.

Questa fugace avventura nel mondo dello spettacolo italiano culmina con quattro canzoncine incluse nell’EP a 7” Balliam baliao, pubblicato nel 1962 dalla Galleria del Corso, nuova etichetta fondata dello stesso Teddy Reno (la stessa che lancerà la carriera di Bruno Lauzi) e in Francia dall’etichetta Barclay, la stessa di grossi nomi della musica popolare francese come Dalida, Charles Aznavour e Jaques Brel.

Da una rapida ricerca negli archivi SIAE scopriamo che dietro le composizioni si celano Giordano Bruno Martelli e il figlio Augusto Martelli, mentre il testo è opera di Mimma Gaspari sotto il nomignolo di Petaluma, giovane autrice che muoveva i primi passi sotto la guida di Teddy Reno e che diventerà una delle donne più note dell’industria discografica italiana, prima scrivendo testi per Rita Pavone, Nicola Di Bari, Ornella Vanoni, Milva e Fausto Leali, e successivamente come promoter di Lucio Dalla, Patty Pravo, Renato Zero, Enzo Jannacci, Gianni Morandi e Paolo Conte. Il vinile riporta anche il nome di Chum Kem ma, onestamente facciamo fatica a immaginare quale potrebbe essere stato il suo ruolo effettivo.

Accompagnato da una misteriosa orchestra orientale (dei semplici session men della casa discografica cui venne appiccicato un nome esotico in linea con l’interprete) il nostro Chum Kem sfodera una buona voce, ma soprattutto un italiano invidiabile (molto meglio di Heather Parisi che ha vissuto in Italia 30 anni), e se ha fatto successo Rita Pavone con quel fastidioso accento piemontese possiamo decisamente perdonare a Chum Kem le chiare inflessioni asiatiche. Il problema sono i testi che gli vengono cuciti addosso, terribili stereotipi sull’estremo oriente che comunemente identifichiamo come Cina e Giappone (tanto hanno tutti gli occhi a mandorla, la pelle giallastra e mangiano sempre riso con le bacchette, e poi ci lamentiamo che descrivano gli italiani come pizza, pasta, mafia e mandolino).

Balliam baliao contiene agghiaccianti giochi di parole che sembrano presi di peso da Delitto al ristorante cinese, ora mi chiedo: possibile che nessuno abbia avuto il coraggio di alzare la mano e suggerire che magari si poteva scrivere qualcosa di meglio rispetto a questa roba?

In Giappone c’è un limone nella Cina un mandarin
ed imparan anche là a ballare il cha cha cha.

Balliam balliam balliam bailà
cho cho chi chi chi chi cho chu cha cha.

Nel paese dei limoni il nuovo cha cha si chiama cho cho
dove sono i mandarini il vero cha cha si chiama chi chi
cho cho chi chi cha cha, ovunque vai si balla il cha cha.

Balliam balliam balliam bailà
cho cho chi chi chi chi cho chu cha cha.

Il risultato è un brano talmente assurdo che sarebbe stato perfetto per il fantomatico quarto volume della serie Mondo Hysterico sul rock’n’roll sotterraneo italiano e in fondo ha un suo innegabile fascino.

Se tutto questo non bastasse ecco che per le altre canzoni i compositori hanno l’ideona di creare degli arrangiamenti pseudo orientali per dare un generico appeal esotico per l’ascoltatore comune.

Su queste musichette da ristorante cinese troviamo Ah! Ah! Cristina che brilla per rime agghiaccianti, misoginia e razzismo light: il nostro Chum Kem canta l’amore alla sua fanciulla che però è bella ma scema, ma soprattutto dai modi talmente poco raffinati che lo imbarazza anche solo quando apre la bocca (l’accostamento zulù = primitivo ricorda molto le Scimmiette del Brasile del Ventennio). Romanticone.

Ah! Ah! Cristina
Ah! Sciocchina ma bellina
sei fatta d’amor.

Ah! Ah! Cristina
Ah! Piccina ma carina
tu nuoti nell’or.

Hai gli occhi tutti blu
ma il cuore di bambù
non parlare più
perché sei un po’ zulù.

Fior di the non ci regala particolari sussulti se non vaghi riferimenti ancora una volta alla Cina (questa volta viene citata Shangai) e ovviamente alle piante di tè che fa tanto Asia.

Il peggio però lo si tocca con l’agghiacciante Kekomikè. Che cos’è il kekomikè? Si mangia? Si beve? S’indossa? È un animale? Una pianta?

Kekomikè… Kekomikè…
non si sa cos’è
ma indovinerò
forse vuol dire che ti devo amare.

Perfetto. Con grande rigurgito creativo ecco che qui escogitano addirittura una parola inventata che fa tanto oriente misterioso. Almeno hanno evitato la rima cuore / amore, ma in compenso han volto mischiare anche un po’ di francese scolastico per aggiungere un quel non so che di romanticismo coloniale.

Nonostante questa brevissima parentesi italiana Chum Kem sarebbe rimasto un illustre sconosciuto nella storia della musica cambogiana se non fosse per un piccolo particolare: proprio mentre si trovava a Roma, nel 1960 ebbe la possibilità di ascoltare la celeberrima The Twist di Chubby Checker (cover del brano di Hank Ballard pubblicato l’anno prima), successo di portata immensa, basti pensare che si tratta della canzone di maggior successo di tutti gli anni ’60 oltre al fatto che ha dato il la alla moda del ballo omonimo.

Così nel 1962, una volta tornato in Cambogia, Chum Kem osò quello che nessuno ebbe il coraggio di fare prima: reinterpretare una canzone occidentale riscrivendone il testo in lingua khmer. Per noi potrebbe sembrare una sciocchezza ma all’epoca fu un mezzo scandalo con orde di tradizionalisti che considerarono deturpata la cultura tradizionale. Grazie anche all’appoggio del primo ministro cambogiano Norodom Sihanouk (egli stesso musicista e regista) e all’apertura culturale promossa dal suo governo, Kampuchea Twist fu il primo adattamento cambogiano di una canzone americana messo in onda sulla radio nazionale. Fu un successo deflagrante in tutto il paese grazie ai giovani che non solo abbracciarono il rock’n’roll ma diffusero la moda del ballo twist. Chum Kem si trasformò così da esotico cantante della musica leggera italiana a figura cardine della nuova ondata di sperimentazione culturale della musica cambogiana aprendo le porte ad altri artisti: i Baksey Cham Krong (prima band cambogiana d’ispirazione surf rock), interpreti femminili come la delicata Ros Sothea e la ribelle Pen Ran, oltre alla superstar cambogiana Sinn Sisamouth capace di coniugare i suoni dell’R&B e del rock psichedelico con gli stili musicali e le tecniche vocali tradizionali khmer.

Dopo un matrimonio finito male con la celebre cantante e attrice Keo Montha, Chum Kem si trasferì in campagna conducendo una semplice vita da contadino prima che il genocidio perpetrato da Pol Pot e i Khmer Rossi se lo portasse via assieme a qualche milione di cambogiani; nonostante il tempo trascorso e il cambio delle mode Chum Kem viene ancora ricordato con affetto dai suoi compaesani come il padre del twist e non possiamo che volergli un po’ bene anche noi, pensando che qualcuno in Cambogia in questo momento sta ballando il twist grazie a un fortuito ascolto durante un viaggio-studio a Roma.

Ringraziamo Enrico Bettinello per la segnalazione.

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