Per un brevissimo periodo sul finire degli anni ’90 le Spice Girls avevano davvero conquistato il mondo: i loro singoli erano successi globali trasmessi di continuo dalle radio, la loro filosofia del Girl Power venne accolta a braccia aperte da una generazione di ragazzine e tonnellate di merchandising a loro ispirato avevano invaso i negozi.
Naturale quindi che la proposta di girare un film musicale su di loro fosse stata subito accettata: così nacque Spice World, in pratica una sorta di enorme spot promozionale del quasi omonimo album Spiceworld, uscito un mese prima nel novembre 1997.
Il modello più o meno dichiarato è uno dei rarissimi esempi di successo in questo filone, A Hard Day’s Night dei Beatles: in fondo, a parte qualche “piccola” variabile, pure le Spice Girls sono stelle del pop britannico circondate da fan urlanti e con un rapporto controverso con la stampa, quindi che differenza fa?
L’idea di base è appunto quella di girare un finto semi-documentario in cui le cinque interpretano versioni (ancora più) fittizie di sé stesse, seguite in una serie di giornate tipo, in attesa di un grande concerto che concluda in bellezza la pellicola. Il tutto ovviamente riadattato e aggiornato per un differente pubblico: i pre-adolescenti degli anni ’90, cresciuti a MTV e culto delle celebrità.
La trama (per definirla in modo generoso) è questa: mentre le Spice Girls girano Londra sul loro double decker decorato con la Union Jack e cazzeggiano tutto il tempo, una troupe televisiva le segue per cogliere il segreto del loro successo, e un magnate dei tabloid decide che uno scandalo legato al gruppo aumenterebbe le tirature del proprio giornale, per cui sguinzaglia un inquietante paparazzo (Richard O’Brien, che fa il verso alle sue precedenti interpretazioni, ma finisce per somigliare a Claudio Bisio) allo scopo di fabbricare qualche scoop fasullo contro di loro.
Il resto del film è un riempitivo, un collage di situazioni da cartoon, fantasie surreali e momenti nei quali non accade in sostanza nulla, con il solo scopo di inframezzare le esibizioni canore, in realtà piuttosto deludenti, visto che le loro canzoni più popolari non sono neanche eseguite in forma completa. Le cinque ragazze, tra un pezzo e l’altro, si esercitano con un bizzarro istruttore di danza militaristico, volano a “Milano” (in realtà sempre Inghilterra) dove si scontrano con un regista locale (uno stereotipo italiano che, visto coi nostri occhi odierni, sembra più uno stereotipo di malfattore rumeno), incontrano dei grotteschi alieni in cerca di autografi e aiutano una loro amica a partorire (!?). Nonostante tutte queste disavventure riescono comunque a raggiungere in tempo la Royal Albert Hall per la performance che chiude gloriosamente il film.
È evidente la disperazione dello sceneggiatore Kim Fuller (che è poi il fratello del potentissimo produttore Simon Fuller, tra l’altro casualmente il manager delle stesse Spice Girls) nel cercare di creare qualcosa che sia so bad, it’s good, cioè consapevole della propria insensatezza e stupidità, e per questo divertente. Purtroppo non ci riesce nemmeno per sbaglio, neanche quando gioca la carta del meta-cinema: in una delle tante inutili sotto-trame buttate a caso, uno sceneggiatore propone delle idee per un ipotetico film sulle Spice Girls, che nel bislacco segmento finale diventano realtà, incluso un repentino pentimento del paparazzo e una bomba sul bus, messa da chissà chi.
Certo, gli autori a loro discolpa possono dire che il target del film è quello delle ragazzine preadolescenti e dei bambini, a cui interessa solo vedere le proprie beniamine e non stanno a sindacare su coerenza e logica in un film. È pure vero però che i bambini non se ne fanno niente della (blanda) satira del giornalismo spazzatura, dei ballerini col culo di fuori e neanche dell’autocritica alle stesse Spice Girls, descritte in sostanza come fasulle e intercambiabili: in una breve scena, ognuna di loro si traveste scambiandosi di ruolo con le altre e pronunciando le loro battute tipiche. La più rivelatrice è forse Mel B che scimmiotta Geri e dice «Girl Power, feminism, blah blah blah…» sottintendendo come la loro “filosofia” sia costruita sul nulla.
Tornando al discorso di prima, è improbabile anche che i bambini che riempirono le sale o che acquistarono in massa le VHS potessero essere interessati alle miriadi di camei e partecipazioni speciali di star che punteggiano tutto il film, tra cui Elton John, Meat Loaf (l’autista dello Spice Bus), Roger Moore (che parodizza, anziché James Bond, i suoi super-cattivi), Bob Hoskins, Elvis Costello (un barista), Stephen Fry, Hugh Laurie, Bob Geldof e via dicendo. Tutti di certo profumatamente pagati, altrimenti non se ne spiega la presenza.
Momenti musicali mediocri, umorismo infantile, trama non pervenuta, incertezza sul pubblico di riferimento… Tutto questo fu ininfluente poiché grazie alla potenza del brand, il film si rivelò un grande successo sia nel Regno Unito sia negli USA, essendo uscito nel momento giusto quando le ragazze erano ancora in vetta alle classifiche e Geri Halliwell non aveva ancora lasciato il gruppo.



Alla fine l’utilità principale della pellicola è quella di fungere da capsula temporale per la Cool Britannia di Tony Blair (che sarebbe dovuto apparire in un cameo) e il suo essere una parodia semi-volontaria della saga di James Bond: oltre alla presenza di Roger Moore, notiamo anche l’intro con le silhouette colorate molto simile ai titoli di testa psichedelici dei vari 007, e la curiosa coincidenza che anche nel contemporaneo Tomorrow Never Dies (Il domani non muore mai) (1997) il cattivo di turno sia un magnate dei media senza scrupoli.
Come sempre, una volta scoccati i vent’anni dalla sua uscita, ecco spuntare diversi articoli nostalgici celebrativi, non sempre ironici, nella tipica smania di rivalutare tutti gli aspetti della cultura pop una volta trascorsi un paio di decenni. Uno di questi lo reputa persino superiore e più azzeccato rispetto ad A Hard Day’s Night. Va bene la nostalgia, va bene l’apprezzamento per il kitsch, va bene l’entusiasmo per ciò che ci piaceva da bambini, va bene tutto, però almeno cerchiamo di non bestemmiare.