Oggigiorno sembra quasi scontato per un musicista di successo partecipare a una pellicola cinematografica o esserne persino il diretto protagonista, ma quando nel 1964 la storica casa di produzione United Artists propose alla band più famosa del momento di fare un lungometraggio interamente basato su di essa, non ci avrebbero scommesso un penny in più del risicato budget su un ipotetico buon successo commerciale.
Come non ricordare i tanti film di un altro peso massimo della musica come Elvis “the pelvis” Presley, ma in quel caso il cantante si toglieva la corona del rock’n’roll diventando un attore che interpretava un personaggio all’interno di quelle pellicole, mentre i Beatles, in questo come in tutti i loro film, interpretano semplicemente sé stessi.
Nella testa dei produttori A Hard Day’s Night era un prodotto cinematografico senza pretese, realizzato in fretta e furia in meno di due mesi complessivi con un budget da B-movie (189.000 sterline, che in valuta corrente sarebbe circa mezzo milione di dollari); un investimento a fondo perduto che, sfruttando la popolarità del complesso, sarebbe dovuto essere un mero mezzo di marketing per pubblicizzare il nuovo album dei Beatles che avrebbe fatto anche da colonna sonora al film.
Proprio per questo motivo fu concessa a John, Paul, George e Rigo un’enorme libertà creativa, permettendo loro talvolta di intervenire direttamente nelle scelte registiche e improvvisare anche le proprie battute. Tutti i dialoghi e le azioni dei quattro sarebbero dovuti uscire quanto più spontanei possibili raffigurando ciò che i Beatles dopotutto erano davvero: dei ragazzi che nel giro di pochissimo tempo si sono trovati catapultati dalle strade di Liverpool alle stelle più alte in maniera vertiginosa.
I quattro (ma soprattutto John) scelsero alla regia il semi-sconosciuto Richard Lester grazie al suo cortometraggio del 1959 The Running Jumping & Standing Still con Spike Milligan e Peter Sellers, che non solo tornerà a lavorare coi Beatles l’anno successivo nel loro secondo film Help!, ma che si dimostrerà uno dei registi inglesi pù originali della sua generazione e che all’inizio degli anni ’80 firmerà due Superman con Christopher Reeve (Superman II e Superman III).



L’esilissima trama si basa su una struttura a metà tra la tradizionale commedia britannica e il finto-documentario in cui seguiamo le avventure dei Beatles in trasferta a Londra in occasione di un grande concerto in un teatro; in loro compagnia c’è il nonno di Paul McCartney, un vecchio tradizionalista e cinico, con un aspro risentimento per le nuove generazioni, la musica rock e i capelloni. Il film intende così seguire una loro giornata tipo tra interviste, fughe dalle fan scatenate, tempo libero e le prove in vista del grande evento.
La curiosa espressione del titolo infatti sembra essere stata suggerita da una frase di Ringo Starr che, dopo molte ore di lavoro sul set, aveva perso completamente la concezione del tempo. I quattro scherzandoci su scrissero in un lampo la famosa title-track.
Così Ringo stesso rivelò in un’intervista:
«We went to do a job, and we’d worked all day and we happened to work all night. I came up still thinking it was day I suppose, and I said, ‘It’s been a hard day…’ and I looked around and saw it was dark so I said, ‘…night!’ So we came to A Hard Day’s Night.»
Le quattro personalità (semplificate ed estremizzate) che emergono nel film sono così delineate e impresse per sempre nell’immaginario collettivo, per la gioia dei propri fan (e sopratutto delle fan): C’è Paul, schietto e buffone, con la stoffa del leader, c’è John, il ribelle, furbo e donnaiolo, George, timido e riflessivo, ma attento osservatore e saggio consigliere quando l’esigenza lo richiede e poi Ringo che cerca di liberarsi dalle voci che lo vogliono una ruota di scorta, insicuro per via del suo aspetto (in particolare il suo naso) e per la sua funzione nella band, ma che in realtà nasconde una personalità intelligente e acuta, dimostrandosi quindi altrettanto fondamentale nella magica alchimia chiamata Beatles.
Ed è proprio Ringo a riservare alcune delle battute più divertenti del film, come quando afferma affranto a George di essere un batterista proprio a causa dei suoi complessi d’inferiorità, o come la battuta entrata ormai nella storia in cui nell’esilarante scena dell’intervista gli viene posta una domanda di un certo peso nella cultura musicale giovanile di quel periodo divisa in due fazioni ben distinte: «Are you a Mod or a Rocker?» a che il buon Ringo senza pensarci su risponde «I’m a mocker!».
Assolutamente notevole, in termini registici e cinematografici, il modo in cui sono state riprodotte alcune particolarità dei Beatles evitando il rischio di cadere nel ridicolo o in stereotipi pretestuosi, anzi contribuendo a darne un perfetto taglio di documentario dell’epoca a tutti gli effetti. Ad esempio il rapporto dei quattro e dei propri fan con le generazioni più vecchie che non comprendono i nuovi tempi che si stanno evolvendo (perfettamente rappresentate dal personaggio del nonno di Paul).
A dispetto delle aspettative dei produttori il film ebbe un successo enorme in tutto il mondo con tanto di due nomination agli Oscar (per la sceneggiatura ad opera di Alun Owen e per la colonna sonora curata da George Martin) contribuendo ad accrescere la fama della band e della cosiddetta beatlemania (che era anche il titolo originale del film in fase di lavorazione).
Il film in Italia uscì con il brutto titolo di Tutti per uno e con un doppiaggio che divenne un ulteriore motivo di culto in quanto aggiunge un tocco maggiormente demenziale alla pellicola. Se vi lamentate anche in questo caso della versione nostrana sappiate che per quanto possa essere scadente andò meglio che nella versione tedesca in cui il film venne pubblicato con il titolo Yeah Yeah Yeah e troviamo i Beatles che citano più volte Gunther Grass e altri grandi autori tedeschi, fanno battute zozze e sognano di vivere in Germania in una trama completamente stravolta per esigenze patriottiche dai distributori teutonici i quali pensavano che altrimenti la band non avrebbe mai potuto avere successo nel loro paese.
A Hard Day’s Night è così diventato un vero e proprio capolavoro pop in ogni senso, e come ogni icona pop che si rispetti diventa inevitabilmente un prototipo per citazioni, parodie e scopiazzature. In Italia il film diede un nuovo impulso al genere dei musicarelli mentre tra le numerosissime parodie come non citare Who Killed Bambi?, il film incompleto diretto da Russ Meyer con protagonisti nientepopodimeno che i Sex Pistols, che avrebbe dovuto essere la versione punk di A Hard Day’s Night. Il film non vide mai la luce ma delle scene di quello che fu l’unico giorno di riprese di questo capolavoro mancato sono successivamente state inserite come filmati di repertorio nel “postumo” The Great Rock ‘n Roll Swindle. Peccato; questa però è solo l’ennesima prova di come A Hard Day’s Night sia stata una pellicola importante nel rappresentare appieno il distacco che la nuova cultura giovanile stava effettuando in quegli anni dai canoni musicali e sociali del passato. Ed eravamo ancora solo all’inizio.