Indubbiamente il Festival di Sanremo è cambiato molto nei suoi oltre sessant’anni di storia: una specie di prova generale di un Festival della canzone italiana risalirebbe già al 1936 a Rimini trasmesso via radio per la nazione, ma non ebbe lunga vita vista la ben poco tranquilla atmosfera politica dell’epoca. In ogni caso la prima vera edizione ufficiale del Festival ligure avvenne nel 1951 grazie all’interessamento di Pier Bussetti, all’epoca padrone del casinò di Sanremo che, proprio come avvenne nel 1932 per il Festival della canzone napoletana, decise di far cantare i concorrenti di un concorso canoro a livello nazionale all’interno del rinomano locale di sua proprietà (occupandosi anche del regolamento della gara canora).
Il colorato e tronfio Festival che conosciamo oggi è una cosa radicamente diversa dalle primissime edizioni: quando ancora era un evento radiofonico le protagoniste erano le canzoni che venivano cantate solo da una manciata di interpreti (all’inizio solo tre) che partecipavano con diversi brani ciascuno (questo fino al 1965). La prima grande svolta avvenne nel 1955 quando si cominciò a trasmettere il Festival in televisione e ciò portò ovviamente ad alcune modifiche sceniche alle esibizioni.
In un tempo di ricostruzione post bellica come quello dell’Italia degli anni ’50, un festival ufficiale della canzone italiana era quello che ci voleva nel progetto di unificare il paese anche da un punto di vista culturale, farlo sentire un tutt’uno e allo stesso tempo donare spensieratezza nel periodo del boom economico che aveva seguito la tragedia della guerra e della dittatura.
Dopo più di mezzo secolo poossiamo commentare o giudicare i brani di quell’epoca che pare così remota e non solo temporalmente? Quelle canzonette degli anni ’50 erano acquerelli leggeri che passavano in un batter d’occhio dal melodramma più serioso a brani umoristici e surreali, spesso poco più che filastrocche accompagnate da musica semplice e talvolta dal vago sapore paesano, dove contava più la rima in sé che il senso del testo all’interno del brano.
Non meraviglia quindi che un brano, oggi considerato una pietra portante della musica tradizionale italiana, come Nel blu dipinto di blu nel 1958 fosse una vera rivoluzione (e non solo perché Domenico Modugno fu il primo cantautore a partecipare e vincere).
Difficile giudicare canzoni così datate e frutto di un certo tessuto storico-sociale come “strane”, “demenziali” o “brutte” con le orecchie del ventunesimo secolo, anzi alcuni brani nel proprio contesto sono davvero dei piccoli capolavori; così tra questi motivetti delle prime dieci edizioni abbiamo voluto segnalare quelli dalle tematiche più incredibili e surreali che non potevano non essere rispolverate.
Gino Latilla, Carla Boni e Duo Fasano – Casetta in Canadà (1957)
Casetta in Canadà interpretata da Gino Latilla, Carla Boni e il Duo Fasano si piazzò solo al quarto posto ma di fatto fu il vero vincitore del Festival di Sanremo del 1957 ottenendo un grande successo di vendite; il brano negli anni diventò quasi uno standard della musica popolare italiana ed è ricordato ancora oggi anche se spesso come canzoncina per bambini, complice il ritmo ripetitivo e il testo strampalato.
La canzone narra di un tale Martino che costruisce una piccola casa in Canadà (alla francese perché all’epoca questa era la lingua della comunicazione internazionale), ma sopraggiunge un altro tale di nome Pinco Panco che con impulso piromane o forse per puro dispetto gliela incendia. Martino però continua imperterrito a costruirne altre senza battere ciglio, senza nessuna reazione né apparentemente denuncia alle autorità, mentre l’infame Pinco Panco continua a darle alle fiamme in un circolo che sembra infinito.
Esattamente come accadde per l’altrettanto demenziale Papaveri e papere dell’edizione del 1952 di Nilla Pizzi la canzone, a causa della sua bizzarria, divenne persino oggetto di interpretazioni simboliche e letture sociologiche: inno alla determinazione contro i soprusi dei prepotenti o puro divertimento musicale senza senso?
Giorgio Consolini – La mamma che piange di più (1953)
Giorgio Consolini nel 1953 dedica una malinconicissima canzone sul dolore delle madri per i figli che non possono riabbracciare per la lontananza o forse per qualche motivo non precisato (ma che deduciamo debba essere di una certa gravità). La particolarità del brano sta però nel fatto che l’interprete afferma, con un appena velato e morboso orgoglio, che tra tutte le mamme che piangono per i figli che non son vicini, indubbiamente la sua è la più disperata. Non ci è dato sapere perché il Nostro non vada quindi a trovarla ogni tanto invece di farla star così male tanto da bullarsene in pubblico.
La canzone risulta particolarmente lamentosa, straziante e petulante e, probabilmente, non a caso non si piazzò affatto bene. Il cantante bolognese nel suo complesso edipico decise di riprovarci nuovamente l’anno successivo guadagnandosi la vittoria al Festival con un’altra canzone di tutt’altro tenore sempre sulla figura della genitrice, Tutte le mamme, cantata in coppia con il peso massimo Gino Latilla.
Carla Boni – Cirillino Cì (1954)
Pareva davero brutto non accennare a questa Cirillino cì, cantata dalla grande Carla Boni e in seguito ripresa da diversi altri artisti tra cui Claudio Villa e il Quartetto Cetra. Una divertente canzone ai limiti della logica con il testo di un umorismo quasi petroliniano incentrato sulla figura di Cirillino, un piccolo infante cui spunta «un ricciolino sulla testa» dopo una caduta dal seggiolone, quindi dopo la consultazione di un decreto legge di Cicerone da parte di papà Cirillo e nonno Cirillone viene ritenuto utile, in barba ad ogni provvedimento sulla violenza sui minori e al buon senso, l’antico rimedio di farlo sbattere nuovamente con la testa per terra per riparare al danno. L’ispirazione della canzone è stata data quasi sicuramente dall’omonimo personaggio molto amato dai più piccoli delle strisce settimanali del Corrierino dei Piccoli di quegli anni.
Gino Latilla – La barca tornò sola (1954)
La barca tornò sola fu la seconda canzone con cui Gino Latilla si presentò a Sanremo e senza timore di smentita possiamo affermare che questa fu la canzone più lugubre mai intonata al Festival. Il brano, che risente pesantemente delle sonorità partenopee narra la tragica storia di tre giovani in barca, esattamente «tre fratelli pescatori, con una mamma bianca, ed una barca nera e con tre cuori ancora da creatura», che nel tentativo di salvare una forestiera in mare periranno tutti e tre mentre la loro barchetta tornerà sola al molo a portare la tragica notizia della loro morte. Oggi avremmo i tweet di Salvini e uno speciale di Porta a porta, nel 1954 bastavano versi drammatici e magniloquenti. Forse era meglio allora.
Nell’ultima strofa, prima degli inquietanti archi alla Alfred Hitchcock in chiusura del brano, si accenna che la giovane in realtà era probabilmente una sirena, fautrice della loro triste sorte. Si dice che il sinistro brano sconvolse talmente tanto il pubblico sanremese dell’epoca che a Gino Latilla arrivarono persino alcune centinaia di lettere minatorie, mentre per smorzare la tensione intervenne il geniale Renato Carosone pubblicando poco dopo una fantastica parodia omonima («…e la barca tornò sola / ed a me che me ne importa!»). Lo sbattuto compositore dell’atroce brano originale, amaramente deluso dal non essere riuscito ad arrivare al primo posto come tanto sperato, non è altri che Mario Ruccione, che quasi vent’anni prima si era guadagnato una certa considerazione musicando una canzone intitolata Faccetta nera.
Gianni Marzocchi e Franca Raimondi – Lucia e Tobia (1956)
L’edizione del Festival di Sanremo 195https://youtu.be/AhJoTqESHSU?t=5s6 fu assai discussa poiché per evitare i soliti volti noti si decise di far partecipare esclusivamente giovani promesse, ma il cattivo risultato commerciale di tutte le canzoni (con la significativa eccezione di Musetto scritta da Domenico Modugno, che per giunta non arrivò nemmeno in finale) portò il ritorno alla normalità dall’edizione seguente, quasi come se questa non fosse mai avvenuta.
Lucia e Tobia cantata da Gianni Marzocchi e Franca Raimondi è una strana storia d’amore tra due non ben definiti personaggi, lei con un ombrellino da passeggio per il sole (il «para-para-para-parasole») e lui con un comune ombrello (il «para-para-para-parapioggia»), due personalità apparentemente opposte che innamorandosi al primo sguardo si affibbiano rispettivamente i nomi che danno il titolo alla canzone, andandosene in giro insieme coi loro ombrelli. Fin qui nulla di male finché la situazione non assume una svolta degna del finale di un episodio di Ai Confini della Realtà, quando una strofa fa presumere che i due siano in realtà giocattoli, marionette o simili: lei finisce così nella tasca di un signore, lui appeso da una bambina al balcone. E così da una canzone tanto allegra non ci si poteva aspettare un finale così deprimente e lasciato a metà, in un amarissimo epilogo:
Col cuore in gola quando lui quel dì girò,
quando lui chiamò: Lucia!
E inutilmente quando lei si disperò,
quando lei chiamo’: Tobia!
Ma col para-para-para-parasole,
e col para-para-para-parapioggia,
non andranno più a passeggio
per le vie della città
per trovare insieme la felicità!