Quando in una discussione esce il nome di Yngwie Malmsteen o stiamo parlando di chitarristi o di sbruffoni, ma molto più probabilmente di chitarristi sbruffoni.
Personalmente ho una sorta di amore e odio verso il virtuoso svedese: da un lato reputo inascoltabile il 99,9% della sua musica, non per demeriti suoi, ma per insuperabili limiti del mio apparato uditivo completamente non accordato a ricevere certe sonorità di heavy metal barocco, dall’altra ha comunque tutto il mio rispetto perché è un musicista con attitudine.
Yngwie è come il tuo odioso compagno delle superiori che era il primo della classe senza nemmeno studiare, perché lui la trigonometria ce l’aveva geneticamente impiantata nel cervello, mentre tu ti domandavi perché mai dovresti perdere tempo a far passare una retta in un cazzo di cerchio.
La cosa peggiore è che il nostro sa di essere il più bravo e non perde mai occasione per sfoggiare quella sua odiosa spocchiosità. Quindi se per ripicca verso il nostro maledettissimo compagno di classe sognavamo di infilargli ogni tipo di parafernalia scolastica direttamente su per lo sfintere, mutatis mutandis ogni volta che ascolto 3 note dello smargiasso Yngwie mi viene voglia di accerezzargli la prostata con quella sua cazzo di stratocaster e non partendo dal manico!
Detto questo io adoro il “personaggio Malmsteen” e non mi sono mai perso un’intervista sulle varie riviste di settore (quando ancora esistevano), semplicemente perché non è un presuntuoso rockettaro wannabe qualsiasi tipo il nostrano Carlo Cori, ma un mezzo genio che sa di esserlo e che ogni volta deve farti pesare la tua piccolezza al suo cospetto; poco importa se spesso ci troviamo in assurde scenette in pieno stile Spinal Tap (“Less is more… how can that be? It’s impossible… more is more” come disse in un’intervista). E così via ad una valanga di note e assoli neoclassici del nostro Paganini della chitarra elettrica che travolgono l’ascoltatore come uno tsunami sonoro.



Il suo ego è talmente rigonfio di elio che vola libero nella stratosfera e non può certo accorgersi che alle volte è più importante la composizione piuttosto che lo sfoggio inutile di tecnica da primo della classe, anche perché basta guardarlo in foto per capire che lui è necessariamente il chitarrista metal definitivo. Questa tragicità del musicista emerge dolorosa come del sale su una piaga quando raramente decide di reinterpretare canzoni altrui chiaramente malmsteenizzandole, ovvero migliorandole (secondo lui).
Anche se potevamo pescare a caso tra una “Gimme Gimme Gimme” degli ABBA o una “Dream On” degli Aerosmith ma la nostra scelta cade sulla gloriosa “Beat It” inclusa nel disco “High Impact” del 2009. Coadiuvato dalla voce penetrante di Tim “Ripper” Owens (ex Judas Priest e Iced Earth) sua maestà Yngwie Malmsteen si accanisce sul successo di Michael Jackson con la stessa insensata ferocia con cui i Lanzichenecchi si avventarono su Roma durante il famoso sacco della Città Eterna.
Nella nuova nerboruta versione “made in Malmsteen” tutto viene macellato senza tregua, dal riff portante del brano all’assolo originariamente suonato da un chitarrista di belle speranze di nome Eddie Van Halen. Estimatore del sobrio e dell’elegante, lo svedesone dalla lunga chioma ci dà una magnifica lezione di gusto trasformando un perfetto brano pop in quattro minuti e mezzo di niente, a meno che non vogliamo contare i continui assoli infilati nel brano alla cazzo (o sarebbe meglio dire alla Malmsteen?) come musica.
In fin dei conti, però, chi se non il Maestro di Stoccolma poteva avere le palle di fare una cosa del genere? Prendere un simulacro della musica e cagarci sopra imbracciando la sua chitarra elettrica. Merda d’artista insomma. Sarà sicuramente arte, ma di fatto rimane comunque merda.