Più volte ho provato a tracciare la nascita delle produzioni disco italiane, ma la missione si è sempre rivelata complessa, quasi impossibile.
Nel 1979 una Heather Parisi approdata da poco in Italia cantava: «Disco disco dove io sono veramente io… Disco disco manda via, tutta la malinconia…» celebrando il manifesto della musica disco, che proprio nella seconda metà degli anni ’70 imperversava nei night club e sulle radio d’Italia.
Così come negli Stati Uniti, anche da noi questo nuovo genere musicale era un veicolo di libertà individuale, celebrazione e trasgressione, una piattaforma espressiva artistica e sociale su cui tutto era concesso. La disco aveva quel sapore di evasione e socializzazione, era la risposta alla rivoluzione socioculturale ed economica di fine anni ‘60.
Sulla mutazione di questo genere musicale, da fenomeno ciclonico internazionale a prelibatezza artigianale e tutta italiana, si può soltanto discutere e speculare; qualsiasi tentativo di ricostruzione “storica” diventerebbe alla fine solo un punto di vista soggettivo. A rendere questa missione più complessa contribuirono i produttori e artisti Italiani che, all’epoca come oggi, prendevano ispirazione non solo dalle produzioni degli Stati Uniti (patria indiscussa della disco music) ma anche da quello che accadeva in Francia, Germania e Inghilterra, mercati che a loro volta “contaminavano” la disco con le proprie tradizioni musicali e viceversa.
Insomma, ci troviamo davanti a una vera e propria matassa di influenze, semi-plagi e riferimenti, impossibile da sbrogliare. E se tutto ciò non bastasse, la cultura disco italiana di quegli anni era molto frammentata, perlopiù legata a realtà regionali e provinciali, ognuna con le proprie discoteche, con i propri DJ/produttori e kermesse di cantanti che vedevano nella musica disco un modo per rompere gli schemi e farsi notare.
Per rimarcare questa contaminazione tra Paesi e produzioni, è importante osservare che, mentre in Francia e Germania, grazie anche all’avvento commerciale dei primi sintetizzatori, la disco era veicolo di sperimentazione e innovazione tecnologica, in Italia le stesse sonorità disco spesso si fondevano con una tradizione musicale più antica, melodica e romantica. Basta dare uno sguardo alla classifica dei dischi più venduti in Italia nel 1977, nelle cui prime dieci posizioni convivevano Ti amo di Umberto Tozzi e I Feel Love di Donna Summer; due specchi di uno stesso paese che riflettevano la tensione e l’intesa di due filosofie di vita opposte ma coesistenti. Questa chiave “melodica” è forse la caratteristica più importante della disco music made in Italy, un aspetto che la distinguerà in tutto ciò che sarà prodotto in quegli anni e in quelli a venire.
La coesistenza di varie tendenze e l’interazione fluida tra movimenti musicali genera la nascita della disco italiana. Un mondo vasto e multiforme che tocca le atmosfere della musica progressive, della musica rock, delle librerie musicali per la TV, del funk artigianale, delle colonne sonore e di tanti altri generi musicali ‘indefinibili’. Lasciando da parte il mondo delle colonne sonore che meritano un approfondimento a parte, la disco italiana si esprime inizialmente attraverso due canali principali. Uno di questi è l’universo “underground” fatto di etichette discografiche locali, di starlette e DJ di provincia, di raccomandati senza un filo di talento ma con sex appeal da vendere e di autori improvvisati. L’altro lato è la rete di artisti famosi che cercavano un makeover musicale per cavalcare le tendenze musicali del momento e conquistare un pubblico più giovane.
Inevitabilmente questi due mondi erano in costante comunicazione, si arricchivano di influenze reciproche e sfumature intermedie, e a volte il risultato si traduceva nella raccomandata e amante del politico du jour che veniva promossa con produzioni di grosso calibro distribuite a livello internazionale, passando in un batter d’occhio dalle esibizioni nelle sagre di paese a Discoring.
Facendo una panoramica brevissima, quasi riduttiva, su alcuni personaggi popolari che sperimentavano con queste nuove sonorità tra la metà e la fine degli anni ’70 in Italia, spicca subito Marcella Bella, una vera e propria Giovanna D’Arco della disco music che, insieme al suo team di produttori e autori, spesso inseriva brani dalle sonorità disco-funk all’interno di album caratterizzati da testi strappalacrime e melodie tradizionali. Già nel 1975, come chiusura dell’LP L’anima dei matti, troviamo una vera e propria perla, una cover in chiave disco-rock di I’ve Got The Music In Me dei Kiki Dee Band (riproposto poi nel 1984 da una Spagna pre-Easy Lady sotto lo pseudonimo Yvonne Kay). Nel ’76 Marcella si avvicina sempre di più alle sonorità disco con Resta cu’ me, cover di un brano di Domenico Modugno del 1957, posizionandosi al quarto posto del Festivalbar di quell’anno, mentre nel 1977 arriva Non m’importa più, vera e propria ode alla libertà di una donna che se ne frega di tutto e celebra la vita ballando in discoteca.
Anche Mina, senza dubbio l’artista più popolare in quegli anni in Italia, apre la porta alla disco music e nel 1977 pubblica un pezzo scritto da Cristiano Malgioglio insieme a Pino Presti (due giganti della musica disco Italiana) dal titolo Amante amore inserendolo nell’album Mina con bignè tra ballate romantiche, momenti folk e rock. La discografia disco di Mina, anche se molto frammentata nel corso di diversi anni, è un grande tesoro della musica Italiana che va riscoperto oggi più che mai, un’altra missione che cercheremo di conquistare nei prossimi articoli.
Infine Alan Sorrenti, un perfetto esempio di artista che, dopo aver registrato una serie di album in odore di rock progressivo, sceglie la disco music come chiave della propria metamorfosi artistica. Creando un ponte magico tra Napoli, New York e Los Angeles, Alan registra una serie di album disco meravigliosi. Dopo la morbida partenza di Sienteme It’s Time To Land del 1976 (in cui si sente ancora l’influenza del suo passato), con Figli delle stelle (del 1977, che ispirerà anche un film non moto riuscito) e L.A. & N.Y (1979) entra nell’Olimpo della disco di casa nostra cantando sia in inglese che in Italiano.
Questi però erano solo alcuni dei personaggi che navigavano in superficie, quelli che entravano nelle classifiche e nelle vite quotidiane degli Italiani grazie anche al supporto radiofonico e televisivo. Dietro le quinte della popolarità c’era un mondo sotterraneo di artisti indipendenti, senza un contratto discografico vero e proprio, che producevano dischi spesso passati del tutto inosservati all’epoca e che oggi sono tra i più ricercati dai collezionisti.
Tra le produzioni che ho sempre amato spicca Grazia Vitale, torinese, figlia di un camionista e di una commessa della Rinascente che, tra un esame all’università di perito aziendale e una serata con la band Le Forme Aldeidi, nel 1977 stampa con la Philips il singolo Flash. Questo brano, a mio avviso una bomba disco, è caratterizzato da una vocina sexy e ammiccante che echeggia il mondo di Donna Summer.
Nel 1970 Bruno Pallesi, cantante e paroliere milanese, fonda l’etichetta Polaris che nel 1977 diventa New Polaris. Sotto lo pseudonimo di Billy Woost, Pallesi produce un album così incredibilmente disco che spesso veniva scambiato per una produzione estera. Consiglio le tracce Body, Body Love e Vibrations.
Un’ultima citazione merita la band toscana Ayx che nel 1978 lancia il brano Ayx Teca, con la voce super rock di Gloria Nuti. Nonostante il brano sia la colonna sonora del film Rock’n’Roll (qui la nostra recensione), c’è poco di rock acrobatico e molto di disco music.
Se avrete pazienza vi farò scoprire le sfaccettature della disco italiana, quella che vi racconterò è una mia interpretazione del fenomeno, degli artisti, dei produttori, delle etichette e dei brani più rappresentativi e che, a mio avviso, hanno contribuito a questo mosaico scintillante. Quindi non consideratemi un esperto e nemmeno uno storico, bensì un appassionato che è cresciuto con pane, dischi e disco, testimoniando la nascita di questo fenomeno con i propri occhi e sopratutto con le proprie orecchie.