Quando si parla di ottima produzione a livello musicale pensiamo istintivamente a Figli delle stelle, canzone dai suoni perfetti e dal sound accattivante come poche altre nel nostro paese che sintetizza perfettamente la discomusic e le sue ripercussioni in Italia. Questo non è affatto un caso visto che l’intero album vede la presenza di alcuni dei migliori turnisti-arrangiatori in circolazione all’epoca come il chitarrista Jay Graydon (Marvin Gaye, Steely Dan e Donna Summer), il bassista David Hungate (Cher, Barbra Streisand e poi nei Toto), il tastierista David Foster (George Harrison, Rod Stewart e Michael Jackson) e il batterista Ed Greene (Jeff Beck, Diana Ross e Steely Dan).
L’album arrivò nel 1977, poche settimane prima del vero e proprio boom della discomusic in Italia grazie alla distribuzione nelle sale de La febbre del Sabato sera, per certi versi uno dei film più fraintesi di tutti i tempi. Figli delle stelle ebbe un successo incredibile, forte soprattutto del traino della title track divenuta oramai un classico del periodo e ancor più inaspettato dal fatto che Alan Sorrenti aveva prodotto nel 1972 e nel 1974 due capolavori di musica sperimentale, Aria e Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto, dischi più autoriali e barocchi, pieni di riferimenti al misticismo orientale e musicalmente più vicini al progressive rock che al pop.
Subito dopo questi due dischi Sorrenti si indirizzò verso lidi più moderati con l’omonimo Alan Sorrenti nel 1974 e con l’eloquente sin dal titolo Sienteme, it’s time to land del 1976, cantato principalmente in inglese per far breccia nel mercato internazionale, prima di optare per la scelta opposta importando l’estero e la moda oltreoceano della discomusic in Italia dopo un soggiorno negli Stati Uniti.
Alan Sorrenti divenne «figlio delle stelle e di sua maestà il denaro» (come ne disse Franco Battiato) perdendo tutti i fedeli aficionados amanti del progressive e della musica underground nostrana, consolandosi però con immensa popolarità ed effimero successo nazional-popolare tra la fine del 1977 e il 1980. Sull’onda dell’entusiasmo nel 1979 ci scappò persino un film intitolato, pensate un po’, Figlio delle stelle, con il nostro a far da protagonista.
Nonostante la moda dei lungometraggi con il cantante di successo di turno nelle vesti di protagonista fosse passata di moda da quasi una decina d’anni, questo pseudo-musicarello virò inspiegabilmente per quella strada per cercare di sfruttare il successo della canzone e della moda della discomusic. La pellicola venne diretta nientepopodimeno che da un giovanissimo Carlo Vanzina ancora in cerca di una sua strada precisa nel mondo del cinema. Il che è tutto dire.
Il film ha una sceneggiatura che chiamarla tale sarebbe approssimativo. Con la scusa di un lungo flashback narrato dal protagonista vediamo un giovane cantante, Daniel (Alan Sorrenti), che fa un provino interpretando una sorprendente, e per molti inascoltabile, versione di Dicitencello vuje, piena di acuti estremi e manierismi vocali (brano già apparso nell’omonimo Alan Sorrenti del “cambio di rotta” del 1974), venendo preso sotto l’ala protettiva del burbero e barbuto manager-padrone Tumba (Tombi Polgàr, una specie di Bud Spencer dei poveri).
Dalla scena seguente Daniel è diventato improvvisamente un idolo per le masse di tutto il mondo, momento chiave è ovviamente l’esecuzione di Figli delle stelle. Segue un pasticcio di nulla, dialoghi terribili e iper-fumettistici e clip di canzoni (quasi tutto l’LP di Figli delle stelle e alcuni brani del successivo L.A. & N.Y.); persino il suo successo Tu sei l’unica donna per me stona in un finale forzatissimo e totalmente senza senso che ricorda molto il non-finale di American Fever.
Alla fama tanto agognata però si accompagnano problemi personali dati dal successo e dalla relazione con la superficiale Gloria (Annie Marie Carell, nella sua prima e ultima apparizione cinematografica), così un giorno preso dall’ansia Daniel ha un collasso e viene mandato a riprendersi in un luogo sperduto in riva al mare, non sapendo che nel frattempo il manager vuole diffondere la voce che sia morto. Proprio in questo posto semi-deserto Daniel troverà il vero amore (la bella e semplice Jennifer, al secolo Chantal Benoist anche lei meteora della musica disco di quel biennio), ma quello che è davvero memorabile è il suo trainer di colore chiamato il Dottore (Ronald Mardebro reduce da Gola profonda nera e Ma dove vai se il vizietto non ce l’hai?) che darà supporto psicologico a Daniel tramite la voce di Ferruccio Amendola.
In qualche modo tutto questo è perfettamente in linea con lo spirito da instant movie, con una fotografia e una regia prossima al fotoromanzo (su tutte la scena dell’incontro in ascensore tra il nostro e Gloria sulle note proprio di Un incontro in ascensore) diretto da un Carlo Vanzina che sparò a colpo sicuro un film frettoloso che fallì miseramente nel tentativo di cavalcare il grande successo dell’epoca di Alan Sorrenti. Inoltre in questo tardo disco-musicarello notiamo la totale assenza di veri caratteristi nonché di qualsivoglia umorismo, infarcendo questa commediola romantica di una malinconia di fondo data da Daniel che medita sul potere logorante e alienante del successo. Un fattore insolito per un film musicale dell’epoca ma che avrebbe potuto dire molto di più se fosse stato trattato adeguatamente e senza fretta. Fretta che non servì a nulla dato che il film attirò pochissimo pubblico nelle sale, ancora meno quando si tentò successivamente di rieditarlo come Tu sei l’unica donna per me, tentando di cavalcare l’onda del secondo e ultimo grande successo discografico di Alan Sorrenti.