Parlando di wrestling, il lettore meno esperto sarà sicuramente abituato a considerare come riferimento la World Wrestling Entertainment, già World Wrestling Federation fino al 2002, federazione di proprietà della famiglia McMahon che produce settimanalmente programmi ben noti quali Raw e Smackdown e pay per view storici come Royal Rumble e Wrestlemania. Il vero fan però sa che negli anni ’90 un’altra compagine si contendeva la palma di federazione più seguita d’America: la World Championship Wrestling, di base ad Atlanta e di proprietà del magnate dei media Ted Turner. Sui suoi ring, celebrità storiche come Hulk Hogan e Macho Man si sfidavano a suon di botte con altri lottatori cresciuti in seno alla WCW stessa, quali Sting, Vader e Diamond Dallas Page.
Quest’ultimo era uno degli atleti di punta della WCW nella seconda metà degli anni ’90, noto per le sue entrate sul ring con tanto di fuochi d’artificio, ma anche per la bellissima donna che lo accompagnava, Kimberly Page. Oltre ad essere la sua valletta, Kimberly era anche la leader di un gruppo di ballerine chiamate Nitro Girls, dal nome del programma di punta della federazione, Monday Nitro. Queste ragazze dai fisici mozzafiato e dall’aspetto avvenente, per tenere fede al binomio wrestling-belle donne, altro non erano che un gruppo di cheerleader, che solevano intrattenere la folla con balletti e coreografie durante le interruzioni pubblicitarie. In seguito, alcune di esse presero parte alle storyline, vale a dire le faide tra lottatori con sporadici passaggi sul ring come lottatrici.
La presenza delle Nitro Girls era una delle caratteristiche distintive della WCW visto che la rivale WWF/WWE ha sempre impiegato le donne nel ruolo di vallette, manager o lottatrici. Tuttavia l’idea di avere un corpo di ballo non stonava con lo show, per la gioia della platea principalmente maschile, e le ragazze vennero apprezzate anche dai commentatori nostrani Paolo Cavallone e Sergio Sironi, grandi estimatori della bellezza delle Nitro Girls.
A questo punto vi chiederete che cosa c’entri tutto questo con Orrore a 33 Giri. Per svelare il mistero dobbiamo spingerci fino al 2001, anno in cui, complici malagestione, capricci di alcune prime donne del ring (e parliamo di lottatori uomini), stipendi esagerati, spese infinite e rating sempre più bassi, la WCW dovette chiudere bottega venendo assorbita dalla WWF. Buona parte dei lottatori venne integrata nel roster della nuova proprietà, alcuni però rimasero fuori assieme alle Nitro Girls, perché la WWF non era interessata a un corpo di ballo.
Teri Byrne (Fyre), Vanessa Sanchez (Tygress) e Sharmell Sullivan (Storm), la compagna del ben più noto wrestler Booker T, erano state rilasciate per questioni di budget poco prima della firma sul contratto della nuova proprietà, mentre Melissa Bellin (Spice) e Chae An (Chae) si ritrovarono da un giorno all’altro col sedere che, seppur di notevole impatto visivo, era rimbalzato pesantemente per terra. Quale migliore idea per riciclarsi, dunque, se non quella di formare una girl band e darsi al mondo della musica?
Le premesse iniziali, almeno da parte delle ex-Nitro Girls, erano tutt’altro che campate per aria. Il gruppo, che aveva assunto il nome di Diversity 5 ma che nel frattempo aveva perso Sharmell (accasatasi con il marito alla WWF) e l’aveva sostituita con l’altra ex Chiquita Anderson, si proponeva di presentare un prodotto più adulto e meno caratterizzato rispetto a quello delle altre girl band che giravano all’epoca (Spice Girls, All Saints, Destiny’s Child, Sugababes, Atomic Kitten…) cercando di posizionarsi in un settore di mercato dall’età anagrafica più alta, mostrandosi come donne adulte piuttosto che diciottenni che parlano di amore adolescenziale ballando con costumini sgargianti. E fu così che le cinque, amiche indivisibili anche fuori dal ring, passarono dai balletti ai gorgheggi.
Grazie ad alcuni agganci nel mondo dei media riuscirono a dare alla luce un’unica fatica musicale, un CD singolo autoprodotto, composto di due pezzi in cui i buoni propositi artistici non trovarono però alcuno spazio preferendo ripiegare sui classici stereotipi del genere: la melodico/romantica I Promise, una canzone che risente pesantemente di influenze di altre pop-band femminili già menzionate, senza peraltro aggiungere nulla al genere, e la più dinamica Shake Me Up, che univa a una base a metà strada tra la colonna sonora di Mortal Kombat e i synth alla Snap! un testo infarcito di beceri luoghi comuni su quanto le 5 fossero fighe e quanto le loro canzoni fossero cool.
Oltre alla completa assenza di originalità che potesse distinguere le 5 dalla massa nel 2001 l’epoca delle girl band aveva “saltato lo squalo”, per dirla alla Happy Days e il mercato pop si stava spostando su artiste singole come Christina Aguilera, Britney Spears e Shakira. Incredibilmente non venne realizzato nemmeno un videoclip per promuovere i brani facendo leva sulla relativa notorietà delle ragazze.
Nel caso delle Diversity 5 infine non aiutò nemmeno la prestanza vocale: il gruppo cercò persino d’intraprendere la strada dei talent show, partecipando nell’ottobre 2002 a una puntata dello show 30 Seconds to Fame, che metteva in palio 25.000 dollari da assegnare all’artista più promettente. Inesorabilmente, le Diversity 5 furono eliminate dalla votazione popolare, ponendo di fatto una pietra tombale sull’intero progetto.