Può sembrare bizzarro che un wrestler famoso decida di pubblicare un disco (ma anche no, visto che anche Macho Man e John Cena sono entrati nel music business), ma pochi sanno che la prima passione di Hulk Hogan (all’anagrafe Terry Gene Bollea) era la musica, infatti il biondo real American in gioventù si dilettava a suonare il basso in una cover band fino a quando, dice la leggenda, in una rissa non fu malmenato da un wrestler professionista e quindi decise di intraprendere anche lui quella carriera abbandonando fortunatamente le sue velleità artistiche.
Negli anni ’80 il wrestling raggiunse l’apice della sua popolarità e Hulk Hogan divenne l’uomo simbolo della federazione più famosa, la WWF; se avesse realizzato questo album allora, probabilmente sarebbe stato un enorme successo, purtroppo le tempistiche di uscita del disco furono pessime e l’album appare un maldestro tentativo di tornare sulla cresta dell’onda o di racimolare qualche dollaro proprio quando la popolarità del wrestling era ai minimi storici a seguito dello scandalo per uso di sostanze dopanti (in cui Hulk fu coinvolto come testimone).
Per incidere il disco Hulk, impegnato al basso e alla voce, chiamò al suo fianco la moglie di allora Linda Bollea (piano e voce), l’amico Jimmy Heart (tastiere e voce – manager di numerosi wrestlers ed ex membro dei The Gentrys, one shot band negli anni ’60 che andò in tour con i Beach Boys e Sonny and Cher, mica pizza e fichi!) e J.J. Maguire (chitarra, tastiere e batteria).
Il risultato va oltre ogni più funesta aspettativa: un mix senza capo né coda di rap, pop e generico rock da stadio, impacchettato da una produzione vecchia di almeno di 8-10 anni che di certo non aiuta; se poi parliamo di contenuti ci si avvicina al vuoto spinto visto che dalla prima all’ultima canzone è un’autocelebrazione del campione di wrestling, davvero fuori tempo massimo e oltre i limiti della decenza.
L’iniziale “Hulkster’s in the House”, che non vede la star del ring al microfono, vorrebbe essere un inno da stadio, ma può fare solo sorridere per la produzione pessima e per il testo invoontariamente comico: «We’re rockin’ down the house / the band is playin’ loud / we’re blowin’ off the roof». La seguente “American Made” era la canzone che introduceva l’arrivo di Hulk Hogan sul ring negli anni ’90 quando combatteva per la WCW; nemmeno questa volta si ode il vocione del lottatore americano, ma bensì è l’ugola di una specie di Sammy Hagar ad allietarci (il che già sarebbe da processo per direttissima), ma non finisce qui perché è impossibile non notare la somiglianza nella musica e nel testo con “Real American” il famosissimo tema di Hulk ai tempi della WWF che non è stato possibile inserire nel CD perché la vecchia federazione ne deteneva i diritti.
Altri brani di nota sono “Bad to the Bone” (non la cover di George Thorogood) cantata da Jimmy Heart, che sembra un brutto demo degli ZZ Top anni ’80, la scolastica “I Want to Be a Hulkamaniac” è invece un infimo brano dance-rap nel quale Hulk, sulla scia di quanto fatto da Mr. T 10 anni prima, cerca di dare buoni consigli ai ragazzi, ma ancora una volta tutto risulta penoso con sciocchi messaggi anti droga («You don’t need drugs to move your feet / When the dealer tries to push on you / Just tell him what you’re gonna do … I Want to be a Hulkamaniac / Have fun with my family and friends») e buoni consigli della domenica come uno zio noioso («Try to do good each and every day / Don’t give up nothin’ bad to say / Always go swimming with a buddy / Work real hard and always study / If you want to be real real cool / Don’t be so stupid and play the fool / Get your education each and every day»).
Si prosegue con “Hulk’s the One” affidata all’ugola d’oro della signora Hogan, la quale, su un motivetto che ricorda “Never Gonna Give You Up” di Rick Astley, ci parla di come ha conosciuto il forzuto maritino con memorabili passaggi di poesia spicciola tipo: «My friends all tell me you’re bad to the bone / Please be bad to me» (forse una relazione sadomaso?) e inaspettate informazioni sul fascino da latin lover di Huok: «When you turned on the charm, I heard the alarm / I should have called the police».
L’ultimo brano degno di nota è la ballata strappalacrime “Hulkster in Heaven” (scritta nel 1992), dedicata a un suo giovanissimo fan morto per una malattia incurabile; purtroppo, anche se il tema è profondo, non si può evitare di ridere ascoltando versi come «I used to tear my shirt, but now you’ve torn my heart / I knew you were a Hulkamaniac right from the very start … The world just lost another Hulkamaniac / I wish Hulk’s love could bring you back again».
OK, il disco è una porcheria indifendibile, ma nonostante questo ad Hulk Hogan si perdona tutto anche perché per qualche strana ragione il disco arrivò addirittura nella top ten di Billboard (!). Come si dice in questi casi: oltre al danno anche la beffa.
Tracklist:
01. Hulkster’s in the House
02. American Made
03. Hulkster’s Back
04. Wrestling Boot Traveling Band
05. Bad to the Bone
06. I Want to Be a Hulkamaniac
07. Beach Patrol
08. Hulk’s the One
09. Hulkster in Heaven
10. Hulk Rules