Nella nostra personale rivisitazione e rivalutazione delle cosiddette “vergogne” dei giganti del rock non potevamo proprio risparmiarvi quello che è stato uno dei più tristi epitaffi di una carriera fulgida e inossidabile: l’ultimo disco dei Clash.
Odiatissimo dai fan più intransigenti e snobbato anche dal pubblico mainstream che fu accalappiato con il riff di “Should I Stay Or Should I Go” o con il punk-funk di “Rock The Casbah”, l’ultimo disco “Cut The Crap” ha sempre goduto la fama di opera astrusa e rinnegata (soprattutto da Joe Strummer stesso).
I guai cominciarono già dopo “Combat Rock” (1982), ultimo LP dei Clash come li desideriamo ricordare. Il gruppo si spaccò con la fuoriuscita di Topper Headon per problemi di droga e Mick Jones allontanato dai rimanenti Joe Strummer e Paul Simonon ed in primis da Bernard Rhodes. Il manager attivista, probabilmente desideroso di rimpiazzare Jones, assunse tre giovani sostituti (Pete Howard alla batteria, Nick Sheppard e Vince White alle chitarre) e impose loro dodici pezzi di sua produzione in cui fondere sonorità sintetiche più radio-friendly con la vena creativa di uno Strummer sempre più confuso sul da farsi.



Il tutto venne anticipato dal singolo “This is England”, denuncia sociale sull’Inghilterra di allora, banalizzata da un arrangiamento a base di clap-machine e svisatine loffie di synth. L’ascolto lasciò molti fan interdetti ma l’aura che circondava la band all’epoca era tale che probabilmente molti immaginavano che l’album in uscita a ruota sarebbe comunque stato aderente ai canoni combat-rockers terzomondisti a cui eravamo abituati (male).
L’effetto plastico del trattamento è invece tale che il primo pezzo “Dictator” sembra un brutto spin-off dei Sigue Sigue Sputnik. Campionamenti a pioggia con diluvio di percussioni sintetiche, svisate di tastiere anni ’80 e Strummer che sermoneggia con tappetino di chitarroni nel deretano.
Da non credere poi che il brano successivo sia forse quello più rock di tutto il disco: “Dirty Punk” suona un po’ come gli zii dei Green Day ma è oro a confronto del resto. “We Are The Clash” parte bene ma poi diventa un inno da pub di Manchester epoca rave, e “Are You Red..Y” tocca veramente il fondo al punto che ti aspetti da un momento all’altro la voce di Marc Almond dei Soft Cell ultimo periodo. Ma come! E il punk? La lotta barricadera? I cori antagonisti e Londra che brucia? Davvero i Clash erano caduti (o manipolati) da un manager flippato al punto di produrre un brano dozzinale come “Fingerpoppin’”? Se siete arrivati a questo punto ascoltando tutto il disco, vi siete fatti male abbastanza da capire perché questo avulso manufatto non compare nei cofanetti commemorativi ufficiali.
Questi Clash li vogliamo dimenticare oltretutto perché inferiori a livello di ispirazione rispetto a quello che sarebbe stato l’esordio di Mick Jones con i suoi Big Audio Dynamite (di pochi mesi successivi allo scioglimento della band), dove perlomeno la commerciabilità funk-rock del combo non era sinonimo di paraculismo sfrontato come quello che trasuda in “Cut The Crap”. Strummer, se Dio vuole, si fece perdonare comunque per la profonda umanità del personaggio (più che per le successive prove soliste) prima della scomparsa prematura avvenuta nel 2002. Di lui ci piace ricordare la sua anima combattiva, intento ad infiammare stadi di persone urlando le strofe di “Tommy Gun“ con i suoi tre sodali, piuttosto che fare il guappo da rave come in questo fine corsa dei suoi Clash, davvero immeritato.
Tracklist:
01. Dictator
02. Dirty Punk
03. We Are the Clash
04. Are You Red..Y
05. Cool Under Heat
06. Movers and Shakers
07. This Is England
08. Three Card Trick
09. Play to Win
10. Fingerpoppin’
11. North and South
12. Life Is Wild