Per un’intera generazione Ricky Gianco è solo quel tizio che al concerto del Primo Maggio del ’91 viene usato (a mò di banda nera) dal sempre avido di giustizia Vincenzo Mollica per censurare Elio e le Storie Tese.
Mentre il complessino denuncia in diretta nazionale alcune simpaticherie di politici dell’epoca (ebbene sì, negli anni novanta esistevano politici disonesti) il Nostro è coinvolto in un momento di involontaria amarezza cosmica, rispondendo a casualissime e improvvisate domande sui suoi pezzi “slow” e “rock” (cit.) con un genuino sorriso che possiamo ritrovare negli anziani quando per sbaglio viene chiesto loro qualcosa sulla guerra.
Pochi tra i giovani dell’epoca avranno pensato di approfondire il personaggio, andando al di là del puerile entusiasmo di quegli occhietti vispi accecati dalle luci della ribalta e della traslucida pelata che probabilmente rifletteva tutto l’impianto luci di Piazza San Giovanni. Errore madornale, e non solo perchè il nostro è un vero caposaldo del cantautorato made in Italy (negli anni ha suonato e collaborato con I Ribelli, Enzo Jannacci, Luigi Tenco, Gino Paoli e Gianfranco Manfredi), ma soprattutto per i deflagranti due minuti scarsi di “Cavallina Rock”, contenuta nella colonna sonora di Liquirizia, una sorta di remake italiano di Grease del 1979 diretto da Salvatore Sampieri di cui nessuno sentiva il bisogno.
Il pezzo risente profondamente dell’ondata “no future” di quegli anni, con una cavalcata infernale senza sosta nel nome del nichilismo più assoluto in cui Ricky incita un coro di anime dannate ad urlare che “siamo tutti nella merda”. Gianco, vero signore delle tenebre, sceglie di travestire la propria furia iconoclasta con un rassicurante abito rock’n roll anni ’60 per poter penetrare indisturbato nel maggior numero possibile di case degli italiani ignari, progetto probabilmente bloccato dall’inconsistenza di Liquirizia.
Il testo si sviluppa su una linea narrativa diretta, concisa ed efficace: Ricky sente odore di merda, la merda si avvicina, siamo tutti nella merda. In tutto questo non è chiaro se la cavallina puzzi, se sia un’audace metafora troppo avanti per essere colta o se l’abbia semplicemente pestata di brutto.
Un’altra linea interpretativa, più noiosa e sicuramente partorita da quella fetta di mondo che i fan di Ricky chiamerebbero senza paura di sbagliare matusa è quella della satira sociale, dell’irrisione del finto benessere borghese pronto ad esplodere sotto minaccia incombente del nostro cupo ed odoroso destino. Manco per il cazzo. Per levarsi questo tignoso dubbio è sufficiente (se proprio per caso assurdo non l’aveste già fatto) scardinare le porte del cinema che conta e immolare tre minuti della vostra volgare quotidianità sul sacro altare di Liquirizia.
Nel doloroso spezzone dedicato al nostro brano troviamo un Ricky totalmente fuori di sé invocare estatico la fine dei tempi danzando tarantolato il suo rock’n’roll, circondato da avvenenti ballerine annunciatrici dell’apocalisse. La folla di sgallettati yuppies a cui si rivolge, ricevendo peraltro indiscussa approvazione generale, è un gagliardo gesto dell’ombrello a qualsiasi benpensante.
Spiace, dopo questo viaggio a ritroso, scoprire che negli anni ’90 questo alfiere dell’estremo (ma il merito era anche del geniale Gianfranco Manfredi, co-autore dei brani) sia stato costretto a diventare emblema della censura più bieca; speriamo presto in un ritorno di fiamma della famosa scena punk travestito da rock’n roll per far stare più tranquilli alcuni ma poi perché che alla fine il testo è una mazzata nelle gengive che rimetta Ricky al posto che gli spetta. Nella merda, dove siamo tutti.
Gabriele Tura