Tra i registi più bizzarri e originali che il nostro cinema abbia avuto dobbiamo annoverare certamente Renato Polselli, passato attraverso innumerevoli generi, dalla commedia con Franco e Ciccio fino all’horror erotico a tematica occulta, western, pseudo-gialli/poliziotteschi e molta altra roba difficile da ascrivere a etichette precise. Ancora oggi è oggetto di dibattito quanto nella realizzazione dei suoi film fosse serio e quanto cercasse di scherzare, quanto fosse consapevole della sua anarchia (si ha spesso il sospetto di subire delle vere e proprie “trollate”) e quanto fosse involontario.
Ancora non si era rivelato appieno il tocco magistrale tipico di film successivi come La verità secondo Satana (1972), Riti, magie nere e segrete orge nel Trecento (1973), Rivelazioni di uno psichiatra sul mondo perverso del sesso (1973), Casa dell’amore… la polizia interviene (1978), Quando l’amore è oscenità (1980), ma anche la sua produzione “minore” riserva chicche, ne abbiamo già presentato un assaggio parlando di Io ti amo (1968), bizzarro musicarello psicotronico con Alberto Lupo e Dalida diretto da Antonio Margheriti ma sceneggiato dal maestro o anche quest’altro pseudo-musicarello Mondo pazzo… gente matta, girato presumibilmente nel 1965 e rilascianto l’anno seguente incentrato sul complesso dei Romans.
I Romans sono stati un gruppo di Roma dalla carriera particolarmente lunga, che passò attraverso le fasi del rock’n’roll degli anni ’50 al beat degli anni ’60 ma fu solo col passaggio alla canzonetta durante gli anni ’70 che riuscirono a guadagnare un modesto e fugace successo con brani come Voglia di mare, Caro amore mio e soprattutto Coniglietto.
Il film (di cui Polselli è regista, sceneggiatore e produttore) è praticamente senza trama e quel poco che sembra esserci appare confusa: apparentemente incentrato sulle vicende di un gruppetto di giovani amici di Roma con la passione per la musica rock’n’roll e jazz e le loro vicende amorose, mentre nel frattempo se la dovranno vedere con gli adulti che odiano la musica giovanile e vogliono spingerli a suonare la cara vecchia musica classica. Tra i ragazzi, oltre ai Romans vi sono anche Franco Latini (storico doppiatore di molti cartoni animati) e una Silvana Pampanini con farlocco ed irritante accento tedesco, due attori molto poco convincenti anagraficamente per interpretare degli studenti universitari alle prime armi essendo ormai sugli “anta”, ma che in compenso rubano la scena a tutti.
La regia di Polselli sembra fregarsene altamente di come funzioni la struttura più elementare del musicarello medio riempiendo l’intera pellicola dei suoi tipici dialoghi logorroici, barocchi e deliranti, atipici soprattutto per questo genere di film che dovrebbe principalmente incentrarsi sulle canzoni e le mode giovanili. Curioso anche vedere come Polselli abbia scelto (o forse sia stato costretto), al contrario dei musicarelli dell’epoca, di incentrare il film su una sola band invece che su molteplici cantanti diversi, soprattutto se pensiamo che i Romans erano solo un complessino locale che non aveva mai avuto un vero e proprio successo, manco stesse girando A Hard’s Day Night. E il maestro non si risparmia nemmeno dallo scrivere alcune canzoni per il gruppo suonate durante il film, come la nevrotica quanto monotona Break-Break-Break, vero e proprio tema del film ripetuta ad libitum per quasi tutta la durata della pellicola («Ballando mi stringo a te te te / ma tu mi allontani da te te te / ma io ritorno da te te te / one two three four break») e Ballata di un cuore, l’unica che verrà mai pubblicata (trover spazio sul retro del singolo Guarirò del 1966).
Se lo spettatore riuscirà ad arrivare alla fine dell’opera dopo dialoghi interminabili su Bach e scene di un umorismo paleolitico ma sfrenatissimo, verrà ricompensato con una vera perla: forse non sapendo come terminare il film, ecco che la fine arriva con un colpo di genio non comune per l’epoca, un finale meta-cinematografico con cui i protagonisti continuano come nulla fosse a camminare per il set e lamentarsi con la troupe di aver ancora altro da fare. Una conclusione strana, ma perfettamente nello stile di Renato Polselli per uno dei musicareli più fuori canone di sempre.