Ci sono tante cose che Moira Orfei può insegnare agli angeli: a domare gli elefanti, a cotonarsi la cofana, a negare l’acqua e sapone in favore di un’appariscenza visibile anche dallo spazio.
Moira è stata un’icona pop, un personaggio camp come sembrano non volerne fare più (purtroppo), una donna bella e con una vita lontana anni luce dalla “nostra” che appena apriva bocca sembrava la zia che vedi a Natale e ogni volta riesce a regalarti abbastanza aneddoti da camparci un anno. Se del circo ce n’è sempre fregato poco è merito suo, perché senza di lei non ce ne sarebbe fregato un cazzo.
Moira Orfei è nata nel 1931 nel paese più famoso per i blasfemi da papà lombardo e mamma bolognese. La famiglia di origine sinti (una delle etnie principali dei cosiddetti “zingari”) lavorava già nel circo, sia i genitori che i fratelli. Moira nel circo ha fatto la qualsiasi: cavallerizza, trapezista, acrobata, addestratrice di colombe e, soprattutto, addestratrice, o meglio, Signora degli elefanti.



All’anagrafe Miranda, è stato Dino De Laurentis a dirle di cambiare nome, di raccogliere i capelli in un turbante e di darsi al cinema. Ha girato dal 1960, lo stesso anno in cui ha fondato Il Circo di Moira Orfei, al 2003 più di 40 film, nei ruoli di gnoccolona o moglie rintronata. E se c’è una cosa che abbiamo capito da queste parti è che quando qualcuno diventa famoso, sicuramente ha una canzone nel curriculum. E infatti ecco qua.
Se Moira avesse messo nella promozione della comunità zingara lo stesso impegno che metteva nella promozione del suo circo, a quest’ora Salvini non avrebbe neanche una pagina Facebook. Si è sempre definita una “zingara di successo”, ma poco altro aveva fatto per la causa. A parte la canzone “Noi zingari“, del 1974.
Cinque anni prima era uscita “Zingara” di Iva Zanicchi, piuttosto stereotipata, ma ci sta: cosa ne può sapere l’Aquila di Ligonchio della vita degli zingari? Invece da una donna che si definisce zingara, che viene da una famiglia sinti, dovremmo avere una canzone più antropologicamente esatta. Ma la verità è che gli zingari sono una scusa per parlare di libertà, amore, fede, patti di sangue (ok…), stelle, chitarre, balli.



«La nostra casa è il cielo» dice Moira, «al nostro fianco avremo l’umanità». E mentre canta di non conoscere il nome della terra sua, le scappa un «inveze» che più emiliano non si può. Anche se musicalmente è una via di mezzo tra la colonna sonora di un B movie e Goran Bregović, la canzone lascia nelle orecchie l’eco familiare delle balere. Ed è per questo che l’abbiamo amata tanto: perché sotto la sua impalcatura, c’era una casa.
Moira diceva di sé «sotto il trucco, sono una brava signora». Sempre meglio che minimali ma stronze.
Chiara Galeazzi