Verso la metà degli anni ’70 i Pierrot Lunaire, gruppo progressive capitanato da Gaio Chiocchio e Arturo Stalteri, si distinsero per due album (l’omonimo del 1974, più apprezzato, ed il secondo Gudrun del 1977) caratterizzati da atmosfere oniriche e sperimentali e da testi trasognati. Lo scarso successo della formula portò il gruppo allo scioglimento nel 1977 e mentre Stalteri prosegue la sua carriera pianistica, Chiocchio diventa produttore, arrangiatore e autore di testi presso la RCA per artisti come Amedeo Minghi, Goran Kuzminac e Paola Turci, salvo poi scomparire prematuramente nel 1996.
Nel 1980 la RCA, personalmente o tramite le etichette succursali come la IT, volle lanciare sul mercato discografico il formato QDisc, in pratica dei 12″ con soli 4 brani che giravano a 45 giri, venduti a prezzo ridotto con cui lanciare dei nuovi talenti come il primissimo Eros Ramazzotti e appunto il Gaio Chiocchio solista.
Il QDisc di debutto Londra del 1980 non passa certamente inosservato per via della foto di copertina col faccione del cantautore autore a metà tra Cicciobello ed un impiegato del catasto, ma i quattro brani inediti contenuti sono ancora peggio: la title track è un prototipo un po’ svogliato di pomp-rock con il testo, dedicata ovviamente alla capitale britannica, che talvolta sembra inventato sul momento, .
Seguono altri tre brani ad orrido suggello del 12″: Regina, Lena e la conclusiva Nave tango su cui stendiamo un velo pietoso, subito dopo l’intro battistiana che per un attimo ci convince che forse non è poi tanto male ecco che arriva la voce e, apriti Cielo, il mondo diventa un tedio senza fine!
Suono e arrangiamenti più vicini ad un demo casalingo che ad una produzione professionale, mentre la voce che declama testi visionari tra poesie da terza liceo e banalità cantautoriali appare appare poco intonata. Il risultato è un piccolo capolavoro di follia e cattivo gusto involontario assolutamente da riscoprire e completare anche con il disco successivo.



Ritroviamo il nostro due anni dopo con un nuovo fiammente 45 giri intitolato Piccolo fuso, dove, inspiegabilmente, ritroviamo la stessa inquietante foto usata nel precedente Londra.
Il suono si rammollisce ulteriormente e a colorare toni da pianobar di second’ordine un testo che allude alla masturbazione con doppi sensi neanche troppo raffinati («c’e un piccolo razzo / un piccolo razzo / solo vola un po’ più in basso») e come lato B la languida Transfert, una robaccia con ritornello in inglese e recitato femminile che nemmeno una Carmen Russo più ispirata potrebbe interpretare.
Tutto ciò mi porta a pensare che questi dischi siano stati voluti più come divertissement narcisistico di un adulto-bambino viziato/vizioso, che come un reale tentativo di costruirsi e proseguire una carriera solista. Oltre a questo Gaio Chiocchio non provò più a cimentarsi con il mestiere di cantautore (avendo venduto praticamente zero copie) ma queste piccole pillole sonore rimarranno per la curiosità degli amanti del diversamente bello e per la stizza di tutti quelli che pur avendo talento non hanno mai avuto la possibilità di incidere un disco nemmeno per sbaglio.
Eh sì, la vita è proprio ingiusta…