Non c’è niente da fare: Sanremo e il rap non si piaceranno mai. Questo è uno dei teoremi del festival che mi sento di appoggiare in maniera più convinta.
Da appassionato del genere infatti ritengo che le sonorità della musica rap si sposino ben poco con il rigido ambiente musicale della melodia italiana, con la cornice sfarzosa e con il codazzo di popolino e popolaccio che circonda la kermesse ligure di febbraio. A meno di voler considerare come di successo le recenti performance di Moreno o Rocco Hunt, che vinse un Sanremo Giovani più per il contenuto che per lo stile… Certo è che il rap ha potenzialità commerciali sicuramente altissime, a causa della sua sempre crescente popolarità specialmente tra i giovani.
Le cose nel 2001 erano purtroppo diverse: che fosse un’edizione abbastanza sfigata per i masters of ceremony (gli MC in lingua rappusa) lo si era capito dalla partecipazione dei Sottotono con Mezze verità, accusati tempo zero di aver plagiato la hit Bye Bye Bye degli N’Sync, con annesse polemiche e consegne di Tapiri d’oro culminate con l’alterco (chiamarlo rissa sarebbe dargli eccessiva importanza) tra Big Fish e Valerio Staffelli.
A rincarare la dose, la geniale idea della Rai d’invitare sul palco dell’Ariston il nuovo genio del rap d’oltreoceano, il discusso Eminem. Un talento innato, una macchina da rime, ma anche un personaggio borderline, con un passato fatto di violenza e soprusi, cresciuto nella Detroit dura dove un adolescente medio si barcamena tra gang, spaccio di droga e un tenore di vita spesso al di sotto della soglia di povertà. Per sfangarla, Marshall Mathers inizia a rappare tra un turno in fabbrica e l’altro, convinto di poter arrivare al successo e di poter mollare finalmente quell’inferno.
Ovviamente non si può pretendere che un artista con un simile vissuto incida pezzi con la rima «cuore / amore», da sempre tanto cara ai selezionatori del Festival di Sanremo. Ecco quindi il patatrac: appena avuto il sentore della tipologia di testi snocciolati nelle canzoni da Eminem, appare all’orizzonte il finimondo. Moige, Arcigay, benpensanti vari e persino lo stesso CDA della Rai, tra impeti di sadomasochismo interno, si adoperano, in un eccesso di scrupolo etico o forse sopravvalutando le capacità medie della platea italiana di capire ciò che Eminem va blaterando nei suoi pezzi in puro slang americano, per bloccare la performance più discussa dell’anno e forse della storia del Festival. Addirittura si arrivò al sabotaggio interno e su Rai 3 si stilarono piani per mandare in onda una controprogrammazione per condannare apertamente l’esibizione sul palco di Sanremo del rapper maledetto.
Che messaggio possiamo dare ai giovani? Un rapper che incita al suicidio, al matricidio, all’omofobia, alla violenza, al consumo di droga cosa può lasciare di buono? E pazienza se la strofa finale di Stan sia una vera spiegazione della mentalità del nostro:
I hope you get to read this letter, I just hope it reaches you in time
Before you hurt yourself, I think that you’ll be doin’ just fine
If you relax a little, I’m glad I inspire you but Stan
Why are you so mad? Try to understand, that I do want you as a fan
I just don’t want you to do some crazy shit
I seen this one shit on the news a couple weeks ago that made me sick
Some dude was drunk and drove his car over a bridge
And had his girlfriend in the trunk, and she was pregnant with his kid
And in the car they found a tape, but they didn’t say who it was to
Come to think about, his name was, it was you.
Il pezzo, hit del momento, venne addirittura bloccato dalla Procura della Repubblica di Sanremo per colpa del presunto messaggio in esso contenuto. La stessa si affannò a rilasciare un visto per una scaletta composta di I’m Back, Purple Hills e The Real Slim Shady, come ai tempi del MinCulPop fascista.
Del resto la vita spericolata a Sanremo puoi cantarla solo se vieni da Zocca e ti sei fatto da solo, per citare Mike Bongiorno, e magari ci campi pure cent’anni… Se ti chiami Eminem e la vita dura l’hai vissuta davvero alla fine passi quasi per Jack lo Squartatore.
Tale fu preso infatti l’artista nel corso della sera dell’esibizione, con un patetico siparietto, protagonisti Enrico Papi, Massimo Ceccherini e una motosega che venne inquadrata nell’atto di distruggere dall’interno una porta di un camerino, classico tentativo di sdrammatizzare una situazione finita nel naufragio in un oceano di cattivo gusto.
Come se non bastasse l’esibizione, passata alla storia per l’esordio assoluto della D12, il gruppo di rapper prodotto da Eminem stesso, fu funestata da palesi problemi tecnici ai microfoni dei cantanti, in modo tale che anche qualora la gente avesse capito il testo non avrebbe comunque sentito una cicca. Ci fu chi parlò di sabotaggio, noi ci auguriamo di no, ma nulla ci stupirebbe di più.
Ad ogni modo non possiamo che condividere il bel dito medio del rapper fatto alla platea in quello che alla fine passerà alla storia come il climax della trasgressione di quella edizione, caratterizzata da share ben poco convincenti e da una noia mortifera di fondo ancora oggi ricordata con tristezza.
In tutto ciò, l’unica nota positiva venne dalla presentatrice: Raffaella Carrà fu la sola a mostrare vera professionalità, cercando di spiegare il background artistico di Eminem, mostrando rispetto per la sua storia e apprezzamento per le ritmiche delle sue canzoni.
Se quindi vi siete sempre chiesti perché non si sia mai stato organizzato un concerto di Eminem in Italia fino a quel momento bè, penso che questo episodio possa rispondere alle vostre domande. «Perché Sanremo è Sanremo», o Sanremo we love you, per parafrasare il buon Marshall. TA-NA-NAA.