Volevo uscirmene con l’arguta frase “un libro da ascoltare!”, di certo una battuta che sa di vecchio, di mercatino dell’usato, ma che rende effettivamente l’idea di questo mastodontico volume di 700 pagine.
Il libro venne pubblicato in Gran Bretagna nel 2005 originariamente con il brillante titolo di Rip It Up and Start Again (fallo a pezzi e ricomincia, inteso come il rock e la musica tutta) e trovò una traduzione italiana solo 5 anni più tardi (si sa che le cose da noi arrivano sempre dopo) grazie a I libri Isbn/Guidemoizzi che lo pubblica con il più didascalico titolo Post Punk 1978-1984,
L’autore Simon Reynolds (celebre critico musicale britannico, la cui conoscenza dei suoi scritti vi aprirà gli occhi e le orecchie, e vi farà fare la figura del saccente durante gli aperitivi con gli amici) propone talmente tanti riferimenti a tutti, o quasi, i partecipanti della scena musicale più importante della seconda metà del ‘900, tanto che ho impiegato quasi due anni per leggerlo approfondendo con l’ascolto.
Un libro da analizzare quindi, con la passione del maniaco, per affrontare in maniera consapevole un periodo breve, come dice il titolo dal 1978 al 1984, ma in cui la sperimentazione ha dato vita alla musica contemporanea.
In principio fu il punk, siamo nel 1977 e vi restiamo. Ascesa e declino di un genere per opera di un unico gruppo: i Sex Pistols. Cosa viene dopo? I Public Image Ltd. (o PIL) e la scena post punk. Scusate se è poco.
Ma che cos’è in sostanza il post punk? Lo dice il nome stesso, tutto quello che viene dopo il punk, dalle cui ceneri nacquero un esercito di arabe fenici che diedero vita alla new wave, al gothic rock (o dark per dirla all’italiana), all’industrial, alla mutant disco e al punk-funk, alla no wave e nella seconda parte del libro (fondamentale) al new pop e al synth-pop.
Che cos’hanno in comune tutti questi generi? Il rifiuto del classicismo dettato dal rock: «Punk e new wave costituirono un colpo di spugna quasi totale, tagliando i ponti fra il rock e l’R&B anni sessanta e ignorando pervicacemente le strade nuove che la musica nera aveva imboccato da allora». È qui che sintetizzatori e drum machine diventano strumenti fondamentali nelle band, mentre le chitarre perdono tutto il loro spessore, venendo in alcuni casi eliminate del tutto.



La sperimentazione prende il sopravvento lasciando spazio a gruppi del calibro dei già citati PIL capitanati dall’ex Sex Pistols John Lydon che lasceranno ai posteri un album come Metal Box (ri-scusate se è poco), per poi passare a Devo, Pere Ubu, Pop Group, Scritti Politti e Throbbing Gristle, solo per citarne alcuni.
Nella seconda parte Reynolds analizza l’effetto che questa rivoluzione musicale porterà nel pop, attraverso l’esperienza di Frankie Goes to Hollywood, Human League, ABC, Adam Ant, Bow Wow Wow (il nuovo tentativo di Malcom McLaren dopo i Sex Pistols), Spandau Ballet, Soft Cell e molto altro ancora. Come avrete capito in quel bravissimo lasso di tempo, di musica buona e/o brutta, ma più che altro strana, ne è passata moltissima e continua tuttora a influenzare le nostre hit da classifica.
Il libro fortunatamente non è un semplice elenco cronologico di una determinata scena musicale, ma presenta uno spaccato sociale e politico che la circondava, influenzando inevitabilmente tutte le band che ne hanno fatto parte.



Il post punk finisce verso la fine del 1984: incapace di replicarsi e di alimentarsi, il movimento lentamente si spense surclassato dalle major e dalle derive pittoresche dall’heavy metal per ragazzini: «A metà anni ottanta, l’ingrediente base di MTV divennero i gruppi “hair-metal”, i cui lunghi e fluenti boccoli e volti pesantemente truccati surclassavano persino i bellimbusti inglesi quanto a confusione sessuale, ma la cui mascolinità era almeno in parte sancita dalle chitarre falliche che brandivano».
Al suo posto non c’è nessun post post punk, c’è un rimpianto, una buona collezione di dischi e continui rimandi e omaggi nella musica odierna, ora sta a voi ritrovarli.