Confesso che non sono mai stato un fan sfegatato di Freddie Mercury e dei suoi accoliti: di tutta la produzione Queen personalmente salverei solo due dischi, il doppio live “Queen Live Killers” (1979), vero bignami delle potenzialità live del primo periodo della band (il migliore), e l’ultimo severo “Innuendo” del 1991 (Se non contiamo – e non vogliamo contarlo – “Made In Heaven” del 1995 con la voce di Freddie “virtuale”), perfetto sipario ad una saga musicale non proprio trascendentale, soprattutto nell’ultimo periodo più mainstream. La triste fine del cantante poi, ha fatto sì che la band diventasse un culto inattaccabile, incentrato in primis sulle capacità istrioniche del suo leader e relegando in secondo piano alcuni episodi musicali, bisogna dirlo, non proprio felicissimi.
“Hot Space” è per l’appunto uno di quei passi falsi che i quattro avrebbero ripetuto qua e là negli anni a venire, soprattutto negli album solisti, ma mai in maniera così clamorosa. Probabilmente gasati dal successo planetario di un pezzo dance-rock come “Another One Bites The Dust” del 1980 (pubblicato come ultimo singolo da “The Game” su suggerimento di Michael Jackson) Freddie Mercury assecondato da John Deacon volle bissare l’inaspettato exploit commerciale del singolo con un intero album che potesse portare la band nei dancefloor senza rinnegare l’anima rock, o almeno questa era l’idea. Brian May e Roger Taylor avevano idee un po’ diverse ma assecondarono il frontman e le classifiche in un mondo dove la discomusic, seppure prossima all’implosione, dominava ancora la scena musicale.



Come produttore fu confermato Reinhold Mack che aveva già lavorato su “The Game”, alla tragica colonna sonora del film Flash Gordon e che, guarda caso, da una parte nel mainstream ci sguazzava ormai da anni come ingegnere del suono per gli Electric Light Orchestra (che avevano realizzato un paio di singoli disco) e dall’altra rivestiva il ruolo di produttore per colossi del rock come Rolling Stones (anch’essi non immuni alla moda dell’epoca con il successo “Miss You”), Scorpions, Deep Purple e David Coverdale.
Per trainare il nuovo LP fu scelto come singolo “Body Language”, assemblato furbescamente sulla falsariga di “Another One Bites” ma ancor più teso verso un suono da discoteca. L’assenza totale della chitarra di Brian May, il testo scarno e un giro di basso filtrato su schiaffi di batteria elettronica evocano qualcosa che, più che un concerto rock, assomiglia ad una pista da ballo stracolma di maschioni a torso nudo che si dimenano sudati in un gay club. Non sorprende dunque che nel documentario Days Of Our Lives del 2011, il solito May dichiarò che la dislocazione dello studio di registrazione a Monaco in prossimità di alcuni locali notturni sadomaso influenzò molto l’ispirazione e le frequentazioni notturne di Mercury.
Più o meno lo stesso trattamento venne riservato a “Dancer”, “Staying Power” e “Back Chat” ricche anch’esse di suoni funky sintetici che sicuramente assecondano le frequentazioni notturne del cantante ma che non hanno nulla a che fare con il glam rock più o meno barocco dei Queen. Prima di chiudere il lato A c’è il tempo per la robotica “Action This Day”, una sorta di new wave-disco meccanica.
Per trovare canzoni un po’ più in linea con ciò che conoscevamo fino a quel momento bisogna aspettare il quartetto di brani che inizia sulla seconda facciata del vinile: “Put On The Fire” però potrebbe essere solo poco più che una B side dei dischi precedenti e la sensazione di un’ispirazione complessiva non ai massimi livelli viene confermata dalla scolastica “Life Is Real” (ballata dedicata all’ex Beatle John Lennon scomparso da poco) e le inutili “Calling All Girls” e “Las Palabras de Amor”. Prima dell’ultima traccia appiccicata per ragioni di marketing c’è tempo per “Cool Cat” completamente cantata in falsetto che riporta il disco sui territori black della prima facciata.
Nessuno dei pezzi contenuti nel disco resterà un classico nelle esibizioni live negli anni a venire a parte “Under Pressure” scritta e cantata in combutta con David Bowie. In questo caso si tratta di un brano pubblicato come singolo nel 1981 che ebbe una genesi autonoma dal resto dell’album e non a caso viene posta in chiusura come appendice.



Ascoltando “Hot Space” si ha la sensazione di qualcosa di irrisolto, forse se si fosse trattato di un one off completamente elettronico avrebbe avuto almeno un senso di divertissement che in questa confusione di momenti sintetici e gioviali armonie mainstream rock latita alquanto. Magari avrebbe fatto da perfetto contraltare ad un suo gemello totalmente rock come avvenne per i due LP “A Night at The Opera” e “A Day At The Races” usciti in sequenza (ma in questo caso simili tra loro).
I Queen furono sempre molto attenti a non stravolgere troppo i gusti dei fan, per cui il successivo lavoro in studio “The Works” del 1984 metterà più a fuoco la macchina da guerra musicale trovando una giusta quadratura tra chitarre ed elettronica nell’anthem “Radio Ga Ga” e rialzerà di netto le quotazioni e la reputazione musicale del gruppo e del suo leader, uno showman di poliedrica unicità che non smetterà di dare notizia di sé fino alla fine dei suoi giorni, sia che lo si vedesse incitare folle oceaniche con mantello e corona sul palco a Wembley nel 1986, sia che ancheggiasse in minigonna e parrucca armato di lucidatrice nel video di “I Want to Break Free”. Del resto il mito rimane il mito, con tutte le sue debolezze.
Tracklist:
A1. Staying Power
A2. Dancer
A3. Back Chat
A4. Body Language
A5. Action This Day
B1. Put Out The Fire
B2. Life Is Real (Song For Lennon)
B3. Calling All Girls
B4. Las Palabras De Amor (The Words Of Love)
B5. Cool Cat
B6. Under Pressure (feat. David Bowie)