Kirsten Dunst è una di quelle attrici di Hollywood la cui carriera è molto variegata: dai blockbuster di supereroi ai film storici in costume ai mattoni di Lars von Trier. A differenza di altre sue colleghe però non ha mai voluto (per sua scelta) sviluppare la sua carriera musicale, che consiste in una manciata di canzoni e nulla più. Eppure, per noi amanti del diversamente bello e di stranezze musicali varie, va ricordato l’episodio del 2009 in cui l’attrice si traveste da maghetta degli anime per cantare la canzone Turning Japanese, successo del 1980 dalla band new wave britannica The Vapors (il loro unico successo, in effetti). Ma che cosa l’ha spinta a indossare una parrucca blu, un costumino sgargiante ed esibirsi in mezzo a passanti stupiti e confusi?

A differenza di Avril Lavigne che, con la scusa di omaggiare i fan giapponesi, ha creato un minestrone di tutte le tendenze del periodo pur di sfondare tra i teenager del sol levante (fallendo miseramente), Kirsten Dunst si è prestata all’imitazione della cultura pop nipponica per amore dell’arte. Infatti, il video della canzone è stato proiettato nientemeno che alla Tate Modern di Londra nell’ambito della mostra Pop Life, incentrata sulle opere di Takashi Murakami, anche co-produttore del corto, uno dei più noti e influenti artisti della cultura giapponese contemporanea.



Una spiegazione è necessaria: Murakami è l’artista più quotato ed influente della cultura giapponese contemporanea, che ha dato vita al movimento superflat, in sintesi una sorta di parodia portata all’eccesso dell’iconografia di manga e altri prodotti di consumo della sua nazione, allo scopo di criticarne la cultura consumistica e di annullare le distinzioni tra cultura “alta” e “bassa”. Come molte parodie però, per chi non conosce gli intenti alla base è facile che possa essere scambiata per un esempio sincero di ciò cui fa il verso, insomma un’altra “giapponesata” demenziale.
Ma torniamo al video. Il clip si chiama Akihabara Majokko Princess, un titolo che diventa comprensibile se ricordiamo che majokko corrisponde alle ragazzine magiche degli anime (Kirsten Dunst indossa un cosplay che ricorda vagamente celebri eroine anni ’80 quali Creamy o Evelyn), mentre Akihabara è il quartiere di Tokyo dove il corto è stato girato: una tempo noto per i negozi di elettronica, ora è il paradiso di nerd e otaku, zeppo di negozi di fumetti, videogiochi, negozi per adulti e così via. Le riprese sono opera di Joseph McGinty Nichol alias McG, regista noto per film quali Charlie’s Angels e Terminator: Salvation.
Diciamolo subito: questa cover nulla aggiunge né toglie all’originale dei The Vapors. L’arrangiamento è praticamente identico, e la Dunst non è una cantante di professione per cui non cerca di fornire un’interpretazione personale, ed è chiaramente aiutata in post-produzione. Ma non è questo il punto. Turning Japanese, nonostante il titolo, non ha nulla a che fare col Giappone (né con la masturbazione, come afferma una persistente leggenda metropolitana): il significato del testo, secondo l’autore stesso (Dave Fenton), è una metafora relativa alla fine di una relazione, con l’uomo abbandonato che lentamente perde la ragione.



E qui si svela l’ironia di Murakami: prendere un’attrice che non ha alcun legame col Giappone, farle cantare una canzone che non c’entra un cazzo col Giappone (se non in apparenza), farla filmare da un regista che più americano non si può e vestirla in quello che a prima vista sembra un costume tipicamente giapponese, ma che in realtà è una parodia volutamente eccessiva e caricaturale. Geniale, no? Murakami dà agli spettatori della sua opera non ciò che il Giappone é, ma ciò che essi credono che sia, in pieno stile superflat.
Questa versione di una celebre one-hit wonder non lascerà certo il segno nella storia della musica, o nella carriera dell’attrice, ma per tutti quelli che sanno stare al gioco è un divertente esempio di critica sagace nascosta sotto colori sgargianti, mentre per gli altri è un classico esempio di LOL Japan, o di “quanto sia figa” Kirsten Dunst che fa la lolita.