Da diversi anni le megacorporation a ombrello, quelle che producono una gamma di beni che spazia dalle gallette biologiche alle mine a frammentazione, hanno trovato nuovi modi per insinuarsi nella vita (= portafoglio) degli young adults, l’ambitissima fetta di consumatori che va dai 13 ai 35 anni e che ha un fortissimo potere d’acquisto.
Una delle strategie più comuni è quella di creare partnership creative con artisti visivi, stilisti, registi e, ovviamente, musicisti: soggetti dalla forte carica iconica in grado di contaminare con la loro coolness e il loro sistema di significati il DNA di un marchio.
L’elenco di brand che hanno inserito le collaborazioni musicali come ingrediente fisso della propria dieta di marketing è lunghissimo, limitiamoci solo a dire che a volte queste cose producono risultati gradevoli (come ad esempio la bella collaborazione tra Kim Gordon e J Mascis per il CONS EP vol. 3, la compilation musicale della Converse) altre volte no. Ed è proprio questo il caso che ci riguarda.
Il marchio patrocinante è Starbucks, il colosso della caffetteria che ha conquistato il mondo servendo primizie come l’Iced vanilla frappuccino with caramel sauce o il Soy latte with espresso shot & cream; la band sono i Vampire Weekend, il quartetto di giovani fighetti newyorkesi che in brevissimo tempo e soli tre album ha scalato le vette dell’alt-pop mainstream con il loro melting pot a base di allegro college rock, un bignami di Paul Simon, melodie soukous liofilizzate e tastierini Casio trallallà. L’occasione è “Sweetheart 2014”, una frizzante compilation dedicata agli innamorati (ideona) e uscita il giorno di San Valentino (ideona 2), in cui 13 big dell’alternative istituzionalizzato reinterpretano una struggente canzone d’amore.
Poteva quindi mancare l’epica “Con te partirò” di Andrea Bocelli, uno dei singoli più venduti di tutti i tempi con oltre 12 milioni di copie vendute? Sì, poteva benissimo. Ma nella versione proposta dai Vampire Weekend doveva assolutamente!



Chi scrive ha sempre considerato la musica del tenore italiano assimilabile all’Opera più o meno quanto il panino Camogli dell’Autogrill è rappresentativo della tradizione gastronomica ligure, ma ascoltando la versione del quartetto di studenti della Columbia University siamo stati davvero costretti a ridefinire i confini del concetto di “coverdemmerda”.
Già la dichiarazione del leader Ezra Koenig faceva presagire il peggio: «una delle più grandi canzoni d’amore di tutti i tempi la cui bellezza trascende il linguaggio». E allora, proprio parlando di linguaggio, perché (dato che ne esiste una versione inglese altrettanto famosa) cantare il brano in italiano, idioma del quale Koenig sembra conoscere giusto i termini “macchiato” e “cappuccino”? Forse la risposta è da ricercarsi nella connotazione ultraromantica che da sempre ha il suono della nostra lingua alle orecchie americane. Però sentire l’imberbe Ezra che miagola malfermo versi come «su le finestre, mostra tuto imio cuare che hai acceso cude dentro me la luce che ha incontrado pe strada… con te patirò» fa venir voglia di picchiare un barbone indifeso più che di baciare appassionatamente la propria metà, e soprattutto fa rimpiangere la Heather Parisi di “Crilù”.
Per quanto riguarda l’arrangiamento, siamo al minimo sindacale: se da un lato è apprezzabile la scelta di prendere le distanze dai pomposi suoni dell’originale, una basetta elettronica old school su cui fluttuano delle zuccherose note di piano di Richard Clayderman e due accordini in levare sembrano un po’ pochino per un gruppo che negli anni si è fatto apprezzare anche e soprattutto per il suo sound.
Il risultato finale assomiglia alla musichetta d’attesa degli ascensori di una nave della Costa Crociere oppure alla base karaoke di un villaggio vacanze Valtur popolato da inglesi ubriachi e ustionati dal sole.
L’unica promessa mantenuta è nella pronuncia del titolo da parte di Ezra Koenig: ascoltando questa cover in effetti patiamo con lui.
Alessandro Mannucci