La fama di Luciano Pavarotti è tuttora più alta che mai, garantendogli a pieno titolo un posto nell’immaginario collettivo; il suo nome è divenuto sinonimo di opera lirica e ancora oggi la sua figura viene ricordata da iniziative benefiche (vi ricordate i terribili duetti del Pavarotti & Friends?), concerti in suo onore e documentari, ma quasi nessuno, nemmeno i suoi fan più accaniti talvolta, si ricordano di Yes, Giorgio, misconosciuta pellicola del 1982 che avrebbe dovuto spalancare le porte del successo cinematografico per il cantante modenese.

Presentata alla sua uscita come uno dei kolossal del decennio la pellicola nacque con la sicura idea di cavalcare l’onda dei musical e dei film musicali in generale che erano tornati di moda tra fine anni ’70 e inizio ’80 tentando di ricalcare i fasti dell’epoca d’oro (e non tutti con buoni risultati negli incassi, anzi).
Sembra che l’idea per realizzare un film sentimentale-musicale sia venuta nientemeno che a Pavarotti stesso, il quale era interessato a realizzare una commedia romantica in qualità di protagonista, ritenendo l’epoca favorevole per portare la lirica al cinema e allo stesso tempo riportare in auge i cari vecchi musical di un tempo.
Il film venne addirittura prodotto dalla Metro-Goldwyn-Mayer (quella del leone che ruggisce per capirci) adattando per l’occasione un romanzetto rosa della sceneggiatrice Anne Piper e assoldando alla regia Franklin J. Schaffner, già dietro la cinepresa in Papillon, il Pianeta delle scimmie e Patton Generale d’acciaio.
Visto il nome in ballo e convinti sin da subito che il film sarebbe stato un successone non si badò a spese, arrivando a un budget di alcune decine di milioni di dollari (dell’epoca). Si narra però che le riprese furono tormentate, a causa di continue ingerenze di Pavarotti nella sceneggiatura; pare inoltre che avesse costretto troupe e cast a seguire i suoi orari sonno/veglia nonché le sue superstizioni (come ad esempio quella di non lavorare mai dopo le 8 di sera).
Parte la pellicola e già l’avviso iniziale agli spettatori è molto eloquente di ciò che avverrà: in italiano leggiamo «Questa fiaba è dedicata ad amanti ovunque» (sic) maldestro tentativo di tradurre parola per parola e vocabolario alla mano «This fairy tale is dedicated to lovers everywhere». Cominciamo bene.
Dopo la scena di un matrimonio in un’Italia da cartolina, vediamo la presentazione del protagonista Giorgio Fini, tenore di fama internazionale (ovviamente Pavarotti stesso) che canta al matrimonio di un suo caro amico. Dopo il breve siparietto comico tristanzuolo con la suora che non riconosce il tenore più famoso del mondo, il protagonista vola negli Stati Uniti per un grande concerto. Purtroppo durante le prove il nostro perderà la voce eseguendo un acuto del Rigoletto. Sarà la giovane e bella dottoressa Pamela (Kathryn Harrold) a rimettergli in sesto le corde vocali e facendogli scoprire che il suo blocco non è fisiologico ma psicosomatico, causato dallo stress della celebrità.
Nell’italianità perfettamente incarnata da Luciano/Giorgio anche dal suo accento decisamente marcato, non poteva che esserci anche il savoir faire del maschio nostrano ed ecco che invitando la dottoressa al suo concerto, il tenore riuscirà a far colpo sulla donna iniziando una romantica storia d’amore, che rimane pudicissima per tutto il film, anche perché pare che lo stesso Pavarotti avesse chiesto di non inserire alcuna scena erotica (anche se non credo che questo fosse comunque in programma nel copione perché, con tutto il rispetto, Pavarotti non era Robert Redford).
Il resto del film è costellato da momenti che tentano di essere comici non riuscendoci mai, scene romantiche, ricostruzioni della vita lussuosa del grande tenore e, ovviamente, tantissime canzoni. Nulla da dire su queste ultime, in cui si può ascoltare tutta la grandezza di Pavarotti, la scelta stessa dei brani fa parte dello stereotipo del personaggio del tenore italiano ed è palesemente realizzato per un pubblico straniero: Ave Maria, Funiculì funiculà, Santa Lucia, O Sole mio, Nessun dorma.
Non è nemmeno una lode semplicemente alla musica o alla lirica: nel film il personaggio di Pamela afferma che l’opera la fa dormire «Sì, ma questo perché non mi hai mai sentito cantarla» è la risposta di lui. Inutile dire che la cinica dottoressa dopo aver sentito la voce di Pavarotti se ne innamora perdutamente. Corteggiamenti, arie liriche e cene a lume di candela, dialoghi da fotoromanzi e regia paratelevisiva.
Insomma il film e l’esilissima trama si reggono solo sul “personaggio Pavarotti” che dall’inizio alla fine viene idolatrato come il cantante più bravo e più famoso del mondo in una sorta di egocentrismo e megalomania che sfiorano l’imbarazzo.
Nonostante tutto Luciano Pavarotti si barcamena discretamente come attore cinematografico per quanto il suo personaggio appaia poco più di una macchietta e, a causa di una sceneggiatura tutt’altro che brillante, piuttosto che il bell’italiano pare solo superficiale, edonista, sessista, ingordo e capriccioso. E prima che qualcuno lo chieda, no, al contrario di come ci si può immaginare, il suo personaggio non subisce alcuna redenzione.
Nonostante la pubblicità, nonostante il nome altisonante del protagonista, nonostante gli sforzi di produzione e nonostante anche una comparsata al David Letterman Show, nulla servì a far decollare il film che divenne immediatamente un flop stratosferico facendo perdere oltre 45 milioni di dollari alla casa produttrice. Ovviamente l’idea di altri film con Pavarotti o altri celebri tenori dell’epoca venne stroncata immediatamente.
Nonostante il film fu un sonoro fiasco al botteghino fu candidato a un Oscar, ovviamente per la musica, ma meglio ancora andò ai Razzie Awards, con ben tre nomination come Peggior attore protagonista, Peggior esordiente e Peggior sceneggiatura. Non male per un debutto. Meglio continuare a ricordarsi di Luciano Pavarotti per i suoi concerti e per la sua voce.
Domenico Francesco Cirillo e Vittorio “Vikk” Papa