I fragili dischi solisti di Syd Barrett, il cappellaio matto del rock

Le ultime intuizioni musicali intime e sconnesse dell'ex frontman dei Pink Floyd

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È possibile parlare della musica di Syd Barrett senza nominare l’elefante della stanza? Impossibile scindere la vita e le opere di Syd e dei Pink Floyd, cui non solo diede il nome, ma grazie alle sue canzoni conferì anche quel sound in bilico tra pop acido e divagazioni sperimentali scaraventando The Piper at the Gates of Dawn tra gli album fondamentale del rock psichedelico. 

Nel lontano 1967 prima che facessero megaconcerti oceanici su un palco galleggiante, facessero volare dei maiali, abbattessero muri e andassero a fare un giro sul lato oscuro della Luna, i Pink Floyd erano semplicemente un giovane e promettente gruppo rock guidati da un ragazzo di Cambridge con un ciuffo di capelli neri e la passione per i viaggi lisergici, finché un giorno prese un biglietto di sola andata.

L’ultimo atto con la band capitanata da Syd Barrett fu Jugband Blues a chiusura del secondo album A Saucerful Of Secrets del 1968: un delirio scoordinato nel quale il testo senza senso nasconde un attimo di lucidità dove canta: «È molto cortese da parte vostra pensarmi qui / e vi sono molto obbligato per aver chiarito / che io non sono qui».

Forse qualche disturbo bipolare? Schizofrenia? Quello che è certo fu che la pesante assunzione costante di sostanze allucinogene non aiutarono la sua mente complicata e lo trasportarono da qualche altra parte, costringendo i suoi amici a intraprendere una strada senza di lui.

Nonostante i viaggi lisergici e i comportamenti assurdi, Syd continua a scrivere musica, o meglio abbozzi musicali che si traducono in un’avventura solista.

Nasce così nel 1968 The Madcap Laughs (che potremmo tradurre come “il pazzo se la ride”, mai titolo fu più azzeccato), un album completamente diverso dallo stile del suo ex gruppo; al posto della psichedelia e chitarre elettriche troviamo un lavoro semi acustico, parecchio confuso (come la mente del suo autore) ma allo stesso tempo affascinante.

Il disordine della produzione è percepibile anche con un ascolto distratto: Syd prima registra i suoi brani con l’ausilio della chitarra acustica per poi essere completati successivamente dal gruppo The Soft Machines che però ben presto lo abbandonano alla follia, stanchi dei continui cambi di umore e dall’impossibilità di seguire un filo logico durante l’esecuzione dei brani. Ad aiutare Syd si affiancano quindi i vecchi amicic Roger Waters e David Gilmour e Long Gone è un esempio perfetto di cosa sarebbero potuti essere stati i Pink Floyd con Barrett.

Il disco è un’istantanea di Syd Barrett in quel periodo: un cappellaio matto ancora in grado di comporre ottimi spunti, ma quasi disinteressato a portarli a termine e il risultato è un “buona la prima”, con errori, stonature e continue perdite di ritmo dei brani, conseguenze date dall’impossibilità di pretendere di più dal suo stato psicofisico. Nonostante tutto The Madcap Laughs è un diamante grezzo dove il lavoro in post produzione riesce sistemare ben poco. I notevoli No Good Trying, Here I Go e Octopus sono forse gli unici brani che possiamo considerare davvero completi.

Arriviamo velocemente al 1970, anno di uscita di Barrett, secondo e ultimo lavoro di Syd, questa volta aiutato oltre dal solito David Gilmour anche da Rick Wright, tastierista dei Pink Floyd.

Anche questa volta la genesi è difficile, sia per lo scarso interesse di Syd, sempre più scostante ed estraniato, sia per gli impegni di Gilmour con la sua band, che lavora all’album dell’amico nei ritagli di tempo, fra un concerto e una seduta di registrazione per Atom Heart Mother. Si intrecciano così per l’ultima volta le strade artistiche dei Pink Floyd e del loro ex frontman e leader: se i primi esploderanno definitivamente nel 1973 con il The Dark Side of the Moon, colui che da lì a poco diventerà per tutti il “diamante pazzo”, abbandonerà la musica per sempre.

Sebbene The Madcap Laughs non fu esattamente un gran biglietto da visita sia per i fan dei Pink Floyd sia per chi cercava sonorità in odor di folk, si giocava comunque la carta della sorpresa, l’album successivo, invece, venne accolto più tiepidamente sebbene sia un prodotto musicale migliore. Anzitutto i limiti di Syd sono mascherati meglio e i brani suonano più armonici e strutturati. Parecchi brani sono degni di nota come l’ipnotica Dominoes, Baby Lemonade con il suo geniale assolo di chitarra acustica come intro, Wined and Dined che sembra scritto da Kurt Cobain nel periodo di In Utero ed Effervescing Elephant, una delirante filastrocca in una savana psichedelica.

Col senno di poi un vero miracolo messo insieme dai vari musicisti e ingeneri coinvolti nella registrazione. Da lì a poco, infatti, il Syd Barrett fa perdere le proprie tracce dandosi alla sua più grande passione, la pittura, e ritirandosi a vita privata a Oxford dove si spegnerà a causa di una malattia nel 2006. Prima c’è ancora tempo per un ultimo incontro fra Syd e i suoi amici, il 5 giugno del 1975, quando durante le sessioni di Wish You Were Here ad Abbey Road si presenta un uomo pelato, senza sopracciglia, sovrappeso, con vestiti trasandati e con un sacchetto della spesa in mano. Ha un’aria benevola, assente, e nessuno lo riconosce al momento. È Syd.

Di quel giorno David Gilmour racconta: «Si presentò allo studio. Era molto grasso, aveva la testa e le sopracciglia rasate e all’inizio nessuno lo riconobbe. C’era solo questa strana persona che girava per lo studio, seduto nella sala di controllo con noi per ore. Se qualcun altro mi avesse raccontato questa storia, avrei trovato difficile credere che si potesse stare seduti per ore con qualcuno in una piccola stanza, con un tuo caro amico da anni e anni, e non riconoscerlo. E vi garantisco che nessuno della band lo riconobbe. Alla fine l’ho capito. E anche sapendolo, non potevi riconoscerlo.»

Anche Nick Mason ricorda quella strana sensazione: «Entrando nella sala di controllo dallo studio, notai un tizio grosso e grasso con la testa rasata, che indossava un vecchio e decrepito cappotto. Portava con sé una borsa di plastica della spesa e aveva un’espressione piuttosto benevola, ma svagata. Il suo aspetto non gli avrebbe permesso di accedere alla reception dello studio, quindi pensai che dovesse essere un amico di uno degli ingegneri. Alla fine David mi chiese se sapevo chi fosse. Anche in quel caso non riuscii a collocarlo e dovetti farmelo dire. Era Syd. A distanza di più di vent’anni ricordo ancora quella sensazione di confusione.»

Quando mi chiedo di cosa sono fatte le emozioni e quali siano i fattori scatenanti penso a questa scena. I Pink Floyd sono improvvisamente nudi, investiti da sensi di colpa, tristezza e dispiacere per non essere riusciti ad aiutare Syd in qualche modo e resta solo l’amarezza di aver perso per sempre quel diamante pazzo.

Roberto Vallucci e Vittorio “Vikk” Papa

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