Scorretti, volgari, anarchici. Questi sono gli Squallor. Un cortocircuito nella cultura pop italiana. Vent’anni di carriera, nessun concerto, nessuna apparizione pubblica, nessuna intervista, eppure tutti li conoscevano. Non certo perché i loro dischi dai titoli con doppi sensi da osteria fossero pubblicizzati o le loro canzoni venissero passate alla radio, troppe le oscenità e gli attacchi contro tutto e contro tutti, ma sempre per il piacere di divertirsi.
La musica degli Squallor nasce come valvola di sfogo, sono una faccenda privata, uno scherzo tra amici e colleghi. Non c’è alcun desiderio di raggiungere il successo, di rincorrere un motivetto orecchiabile o peggio genuflettersi al Festival di Sanremo, come hanno fatto puntualmente tutti quelli che seguirono. Una rapsodia di testi improvvisati, errori, risate, nonsense, volgarità assortita ma mai fine a sé stessa, sberleffi rivolti ad autorità, politica, costume e religione da parte della nobiltà discografica italiana che passava la notte a bere, fumare, fare scherzi telefonici e a divertirsi in un tentativo di catarsi spirituale. Tanta voglia di libertà, di ridere, di dissacrare i poteri forti in nome di un’amicizia lunga e duratura. Una sorta di Amici miei dediti a zingarate musicali sputando deliberatamente nel piatto in cui mangiavano.
Parodiammo il nostro universo e in quel modo ci salvammo l’anima (Alfredo Cerruti)
Quattordici album in studio più o meno riusciti che rappresentano la perfetta arte di mischiare “basso ” e “alto” colpendo in primis il loro stesso lavoro, parodiandolo, deturpandolo magari tra rutti, pernacchie e improvvisazioni dadaiste, come ad esempio quelle magnifiche basi musicali che avrebbero fatto gola ai grossi nomi della musica pop “buttate via” in questa sorta di scherzo compulsivo.

L’inconfondibile voce narrante di Alfredo Cerruti, all’epoca direttore artistico presso la CGD e poi della Ricordi, successivamente autore televisivo (Indietro tutta!, Il caso Sanremo, I cervelloni e Domenica in) nonché fidanzato di Mina sul finire degli anni ’70, le canzoni melodiche in napoletano interpretate da Totò Savio, chitarrista sopraffino, produttore e compositore di Cuore matto (Little Tony), Maledetta primavera (Loretta Goggi) e Una rosa blu (Michele Zarrillo) e i testi di Daniele Pace, autore di cosette come Nessuno mi può giudicare (Caterina Caselli), E la luna bussò (Loredana Bertè), Sarà perché ti amo (Ricchi e Poveri) e Tanti auguri (Raffaella Carrà), e Giancarlo Bigazzi, probabilmente il più noto del gruppo avendo nel suo curriculum di paroliere una sfilza invidiabile di successi come Ti amo e Gloria (Umberto Tozzi), Self Control e Cosa resterà degli anni ’80 (Raf), T’innamorerai, Perché lo fai e Vaffanculo (Marco Masini), Gli uomini non cambiano (Mia Martini), Rose rosse (Massimo Ranieri), Montagne verdi (Marcella Bella), Luglio (Riccardo Del Turco), Si può dare di più (Gianni Morandi, Umberto Tozzi e Enrico Ruggeri) e Non amarmi (Aleandro Baldi e Francesca Alotta). In pratica questi quattro rappresentano la storia della musica leggera italiana dagli anni ’60 agli anni ’90.
Gli Squallor furono il lato oscuro della società degli anni ’70 spingendo l’asticella di quello che si poteva fare e dire con il formato canzone, usando il turpiloquio come cartina tornasole dell’Italia di allora, ma allo stesso tempo fornendo la perfetta valvola di sfogo durante i bui anni di piombo. Un segreto che tutti conoscevano. Tanti i dischi venduti, ma nessuno ammetteva di ascoltare gli Squallor.
Impossibile infine non citare i loro figliocci bastardi quali Skiantos ed Elio e le Storie Tese, ma gli Squallor giocavano un altro sport: godevano di una totale libertà espressiva essendo autori e discografici di enorme successo senza nessun obbligo contrattuale e ciò permise loro di scaraventarsi con sagacia, ferocia e ironia contro qualsiasi cosa. Roba impensabile oggi in una cultura dominata dal pensiero perbenista unico (pena l’ostracizzazione scientifica su ogni piattaforma di comunicazione) e del politicamente corretto sempre e comunque, dimenticandosi che alla fine basterebbe prendersi molto meno sul serio.
Arrivano gli Squallor
Insomma una roba improponibile per qualunque radio. Le assurde vicende del famoso «elettrotecnico che seppe inventare la pila» erano qualcosa di completamente nuovo e mai sentito prima, tanto che il disco senza alcun tipo di promozione vendette 100.000 copie. Non male per una cazzata tra amici.
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Per questo 45 giri e per l’album d’esordio che arriverà due anni dopo vi è anche la partecipazione del discografico Elio Gariboldi, il quinto membro fondatore del gruppo che però lascerà poco dopo. Nel 1973 arriva quindi l’LP Troia, disco che racchiude già le linee guida di quello che sarà il loro modo di fare musica: il titolo con doppio senso, l’alternarsi tra brani recitati e brani cantati e quel clima anarchico arricchito con testi fuori da ogni logica, linearità e, molto spesso, menefreghisti della grammatica e dei benpensanti.
Non si tratta di un capolavoro, ma il banco di prova delle meraviglie che arriveranno dopo. La sua fama è dovuta principalmente all’effetto deflagrante che ebbe nel mondo musicale italiano. Se brani o sketch innocui come Raccontala giusta Alfredo, La risata triste o Karate passano blandi e fungono da riempitivi, per quanto formalmente ben curati, è anche vero che possiamo già trovare dei primi classici come Indiani a Worlock, Ti ho conosciuta in un clubs oltre alla già nota 38 luglio, chiari manifesti della loro arte dissacratoria. Da segnalare Non mi mordere il dito curiosa cover con testo in modificato di The Mosquito, oscuro brano nientepopodimeno che dei Doors contenuto nell’album Full Circle, il secondo e ultimo senza Jim Morrison.
Esempio lampante è la traccia divisa in due parti Marcia longa, una telecronaca di eventi senza senso in cui la voce narrante di Alfredo Cerruti è sovrapposta due volte creando una vera e propria sarabanda dell’assurdo. Ma non sono da meno Il vangelo secondo Chinaglia, il coro di apertura e chiusura di Santanna, il brano di Rosanna Fratello Sono una donna, non sono una santa cantato da Daniele Pace in maniera seria ma che riesce lo stesso a sortire un effetto comico (la stessa cosa faranno Elio e le Storie Tese quando Mangoni canterà In te di Nek) e sopratutto la gag a due voci di Angeli negri, parodia dell’omonimo brano di Fausto Leali.
Il disco contiene anche un successo inaspettato, il brano Bla bla bla, palese presa per i fondelli delle canzoni straniere in cui una voce femminile si limita a cantare «Bla bla bla bla bla bla» e il ritornello con voce maschile che dice «Et moi vraiment je t’aime», diventa molto popolare all’estero, soprattutto in Francia, Belgio e Olanda, dove pensano si tratti di una canzone “seria”.
Sempre più volgari, maleducati e irresistibili
Arrivati al terzo disco, l’indice di scorrettezza e sberleffo continua a salire sempre più pericolosamente e gli intenti del gruppo non si limitano più a sfottere il mondo della musica e i suoi esponenti, ma ora si prende di mira la religione con Piazza Sanretro, l’ecologia con Terrestri e le istituzioni con L’alluvione, mentre brani come Gentleman per quanto fini a sé stessi centrano l’obiettivo, ovvero far divertire con nulla.
Il capolavoro assoluto però è celato nella title track: su una base di musica classica (la stessa che verrà usata in Berta) la voce dell’ospite d’onore Gianni Boncompagni introduce uno per uno i membri di una band chiamata The Cow narrando all’ascoltatore la vita e il modo in cui essi si sono suicidati pur essendo tutti presenti sul palco. Semplicemente surreale quanto irresistibile.
L’album fu un successo incredibile arrivando nella top 10 dei dischi più venduti in Italia.
In Sfogo viene preso di mira il cantautorato impegnato e vede Alfredo Cerruti fare l’analisi di una canzone cantata da Daniele Pace e Totò Savio con tono saccente, erre moscia e paroloni complicati (e inventati). C’è Berta, celeberrima nel suo gergo scurrile («Berta, ti amavo, ma scendi giù che ti spacco il culo brutta troia») in cui un giovane milanese allupato viene insultato in mille modi da una ragazza napoletana e Unisex in cui la musica di Fiesta di Raffaella Carrà viene usata per raccontare la storia di sesso omosessuale tra due uomini, uno dei quali si scoprirà essere un cardinale (ricordatevelo: era il 1977).
Infine come non citare Famiglia Cristiana che darà il via a uno dei cavalli di battaglia della band, ovvero la saga di Pierpaolo: sketch in cui un ragazzino con voce stridulissima (lo stesso Cerruti) e dal linguaggio triviale telefona al padre ogni volta da un angolo diverso di mondo, minacciandolo di spifferare gran parte dei suoi oscuri segreti finanziari e politici in cambio di cospicue somme di denaro da poter spendere per i suoi capricci personali. In poche parole gli Squallor alla massima potenza.
Questo album è il primo in cui il monopolio della voce recitata di Cerruti si fa totale e difatti si nota l’assenza di vere canzoni. Daniele Pace scompare e Totò Savio si sente brevemente in Confucio, uno scherzo che nonostante tutto è spaventosamente attuale, in cui un politico alle prese con un comizio parla a dei colleghi che si fanno gli affari loro tra cori, bambini scomparsi e pernacchie.
Altri brani da citare assolutamente sono Crosta Center Hospital che sbeffeggia la malasanità, Torna Pierpaolo e sopratutto D’annunziata, un altro dei loro massimi livelli, in cui un uomo si fa fare una fellatio da due ragazze dando loro istruzioni, il tutto amplificato da una musica funky che accompagna in maniera talmente perfetta da rasentare la serietà. Per fortuna invece si tratta del solito loro grande sberleffo.