Sul finire degli anni ’70 impera ovunque la disco music e l’Italia non ne è meno coinvolta e influenzata, dato che le note si sposano coi colori e le luci in un tripudio pazzesco. Inevitabilmente tutto ciò tocca anche alcuni dei nostri interpreti che, come fecero i Bee Gees, un po’ per curiosità, un po’ per necessità di svecchiarsi, si buttano in questa nuova moda con più o meno convinzione.
Nella prima categoria ricordiamo sicuramente Libera di Mia Martini (un unicum nella sua produzione discografica) e soprattutto il tormentone Figli delle stelle di Alan Sorrenti improvvisamente convertitosi al “travoltismo” (un successo clamoroso che che generò anche un discutibile film) dimostrando come fosse possibile produrre dell’ottima musica disco anche da noi (anche se in quel caso si era circondato di collaboratori americani e di Ed Greene alle percussioni, mica il primo batterista di qualche orchestra di liscio di Vezzano sul Crostolo).
Nella seconda categoria, invece, come non citare le nuove versioni per piste da ballo di Una lacrima sul viso di Bobby Solo, o Tony Renis e il suo inspiegabile successo Disco quando (ebbene sì, è proprio una versione rimodernata di Quando, quando, quando).
In tutto questo la carriera di Orietta Berti continuava imperterrita: transitata senza probemi negli anni ’70 macinava successi tra Sanremo e un repertorio più folk. É in questo clima che nel 1979 vede la luce l’album Pastelli, una sorta di patchwork principalmente composto da vecchi singoli (e relativi lati B), reincisioni e un paio di canzoni usate come sigla di coda del programma I sogni nel cassetto, condotto all’epoca da Mike Bongiorno su Telemilano 58 nel quale la Berti era ospite fissa. Tutti brani più tradizionali del repertorio della nostra amata (La nostalgia, Eppure ti amo e la nuova versione de L’amoroso per esempio) in cui la cosa più contemporanea è proprio una di queste sigle: stiamo parlando di Vai Lulù, cover italianizzata per mano di Bruno Lauzi di Lulu, originariamente incisa dai Cyan, backing band inglese di Patty Pravo ai tempi del Piper e successivamente fidati collaboratori di Francesco De Gregori nella seconda metà degli anni ’70.
Il vero motivo di interesse è però nascosto nell’altra sigla: I sogni son desideri non solo è la cover del celebre motivetto tratto dalla colonna sonora di Cenerentola di Walt Disney (del 1950, già vecchia allora), ma, tenetevi forte, in un balzo di modernità, viene reincisa in versione disco music! Un matrimonio di puro interesse che coniuga appunto il nuovo corso negli arrangiamenti più moderni e strizza contemporaneamente l’occhio al repertorio più tradizionale che ci sia, dedicando attenzione ai bimbi e alle famiglie (precursore di quello che avverrà con il disco successivo, l’indimenticata colonna sonora del cartone animato Barbapapà in coppia con Claudio Lippi).
Ascoltando questa versione disco di Orietta Berti viene sinceramente il dubbio che nessuno l’abbia avvertita, perché nonostante la base segua pedissequamente gli stereotipi del genere in un tripudio d’archi e basso incalzante lei se la canta nel suo classico stile da canzonetta.
Evidentemente non si voleva mandare nel panico il pubblico di estimatori di successi come Fin che la barca, Tipitipitì e Via dei ciclamini, ma è oggettivamente impossibile trovare un groove accattivante in questo strano quanto unico mix di disco music, melodia d’antan e cantato in stile Canzonissima. Insomma una distanza siderale da quello che il popolo della notte ballava allo Sudio 54 di New York.
Questa versione di disco-Orietta non riuscì a spopolare neppure nelle balere di Cavriago, né convinse i suoi vecchi fan, tanto che il disco non fu mai ripubblicato e ad oggi non è presente neppure in formato digitale. Insomma, la febbre del sabato sera per lei durò assai poco e purtroppo a noi resta il rimpianto di non averla potuta ammirare vestita come Patti LaBelle o Grace Jones.
Giuseppe Sanna e Vittorio “Vikk” Papa