Quando oggi si disquisisce sulla musica tedesca, si spera sempre che non saltino fuori i soliti Rammstein, ma che si presti la dovuta attenzione a uno dei più grandi geniacci innovativi della new wave, del punk e soprattutto del nonsense musico-verbale del panorama musicale crucco: Nina Hagen.
Espulsa a metà degli anni ’70 dalla Germania dell’Est e ristabilitasi con la famiglia a Ovest, si reca ben presto a Londra, dove s’immerge nella scena punk dominata dai Sex Pistols e ha anche un profetico assaggio della sottocultura postpunk al femminile, di cui le Slits sono pioniere.
Dopo il ritorno a Berlino Ovest nel ’77, fonda la Nina Hagen Band e nel loro primo album uscito l’anno successivo troviamo una delle prime gemme del gruppo: Auf’m Bahnhof Zoo (Alla stazione dello zoo) è un chiaro riferimento alla malfamata stazione berlinese attorno a cui negli anni Settanta e Ottanta gravitano spaccio e prostituzione. È la stessa stazione resa celebre in tutto il mondo dall’autobiografia di Christiane F. sui ragazzi dello Zoo (Wir Kinder vom Bahnhof Zoo), uscito sempre nel 1978. Un assaggio di quello che arriverà da lì a breve, perché, come vedremo, le droghe saranno un topos ricorrente nella vita e nella produzione musicale di Nina Hagen.
Ciò si conferma nel secondo e ultimo album della band arrivato l’anno successivo: Herrmann hieß er (Si chiamava Herrmann) è dedicata all’ex compagno Herman Brood leader del progetto new wave Herman Brood and His Wild Romance, dove per un paio d’anni milita anche il chitarrista Ferdie Karmelk, futuro compagno della Hagen. Brood si suiciderà poi nel 2001 dopo una una vita trascorsa ad assumere droghe pesanti: «Una vita senza droghe non vale la pena di essere vissuta», scrive nella sua lettera d’addio prima di gettarsi dal tetto di un hotel. Per usare le stesse parole di Nina, «Herrmann se ne fotte della vita (…). Ha bisogno di siringhe e pillole per riempirsene il sangue. La follia è un viaggio verso l’Inferno, il cervello si ammala e barcolla sempre verso nuove dimensioni, là, dove abitano le forze malvagie».
Tal Ferdie Karmelk, dicevamo, diventa verso la fine degli anni Settanta il nuovo compagno di Nina Hagen e si distingue anche lui, tanto per cambiare, per una spiccata dipendenza da eroina. All’inizio del nuovo decennio, Nina, incinta e satura delle intemperanze di Ferdie, si trasferisce in California e registra il suo album di debutto solista (in inglese) NunSexMonkRock (1982). Ferdie contribuisce in modo particolarmente incisivo alla stesura di due pezzi, Dread Love e Smack Jack (dove in gergo il termine inglese smack designa, udite udite, proprio l’eroina). Il tragico leitmotiv autobiografico s’insinua ancora una volta tra i versi dell’artista berlinese, e in questo caso pare che il testo sia stato scritto dallo stesso Ferdie in una riflessione sulla lotta contro i propri demoni. «Ha bisogno di una dose, ha bisogno di una dose», ulula Nina Hagen all’apertura del pezzo, che di primo acchito sembra una versione più cupa e tossica di New Religion dei Duran Duran, uscita soltanto un mese prima.
La Hagen prosegue ora gracchiando la narrazione delle vicissitudini dell’alter ego di Ferdie, alla prese con la caccia alla dose, i sudori infernali e le allucinazioni da crisi d’astinenza entro i confini di un paradiso di plastica senza futuro e senza passato. Il tessuto sonoro new wave della prima strofa subisce un’improvvisa accelerata con il ritornello dalle tinte quasi punk rock in cui si levano dei coretti deliranti delle tre Nine, che si possono ammirare nel magnifico video che accompagna il brano.
Il trittico si compone di tre versioni interessanti dell’artista: in quella centrale è travestita da uomo, o meglio una bislacca figura sincretica, una specie di torero emaciato sotto anfetamine con accessori da divisa nazista; degli altri due travestimenti il primo ricorda la famigerata Nancy Spungen, che in questo contesto “drogativo” non sfigura affatto, e l’altro una procace quanto misteriosa chanteuse/disco queen dai lunghi capelli neri e la pelle olivastra. Quasi in chiusura Nina Hagen si camuffa anche da Madonna nera spettrale che congiunge le mani e, quasi in preda ad una visione estatica, ripete il mantra «Please, don’t do it no more, don’t do it no more, no more, no more, no more». Mentre le quattro maschere di Nina improvvisano una danza strampalata, si consuma il gran finale, che suona quasi come un epitaffio ad effetto per/di Ferdie, vittima qualche anno dopo della sua dipendenza e delle coseguenze dell’AIDS: in fondo «Junkies are sentimental, junkies are very very sentimental.»
In diverse interviste Nina Hagen ha fatto un po’ la spaccona dichiarando che, per un periodo, la cocaina è stata la colonna portante della sua genuina colazione. Nella sua autobiografia Bekenntnisse (Confessioni), uscita nel 2010, la nostra pazzoide berlinese sviscera senza filtri le sue scorribande alcoliche, iniziate alla tenera età di 14 anni, e il vortice di erba, LSD ed eroina che l’ha trattenuta nelle sue spire per diverso tempo, tra allucinazioni, spettacolo, follia e prolificità musicale. Parallelamente alla saga degli eroinomani, si scopre in Unbehagen, secondo capitolo della Nina Hagen Band pubblicato nel 1979, un faceto canto all’erba, intitolato programmaticamente African Reggae. «Che profumino!», esordisce quasi ragliando Nina, su una base dub cadenzata dal basso sinuoso. «Stai attento a non farti beccare», si raccomanda poi, perché la società perbenista in declino e avvinazzata, in fondo, se la prende solo con il povero, vecchio, innocuo fattone. Immagini di space cake, hashish prezioso come il cashmir, apparizioni di Bob Marley su Venere e solenni fumate d’erba nella Foresta Nera sono incorniciate dall’ammaliante gracidio, dai cacofonici strilli nonché dai curiosi cori simil-jodel della Hagen, sonorità dub e guizzi di chitarre tipicamente rock.
Ma di recente Nina ha spiazzato tutti co la sua svolta cristiana (apparentemente non alla Giovanni Lindo Ferretti – si spera), tant’è che si fa battezzare nel 2009 ed incide dei dischi gospel. Riscopre Dio, con cui, apparentemente, ha avuto un rapporto travagliato sin da ragazzina: «A 17 anni ebbi un brutto trip di LSD e mi ritrovai seduta davanti a Gesù Cristo», racconta al Berliner Kurier nel 2010 poco dopo la pubblicazione della sua autobiografia. «La vita è una splendida idea di Dio», aggiunge. Ok, d’accordo. Altrettanto splendida è la sua rivisitazione di Personal Jesus da anziana tabagista, racchiusa nell’omonimo album del 2010 dedicato proprio a Nostro Signore. Anche qui si tratta di un gran bel trip.
Ascoltiamo in pace.