Per chi è cresciuto tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 Marco Masini, sì proprio quello che oggi si è trasformato in un perfetto hipster con barba messianica, occhialoni neri, bretelle e tatuaggi d’ordinanza, era uno dei capisaldi della programmazione radiofonica italiana.
Che vi piacessero o meno le sue canzoni, provate oggi a riascoltare l’album Malinconoia e avrete un rigurgito di nostalgia e vergogna, perché le ricorderete tutte o quasi. Impossibile cercare di scappare dalle sue hit radiofoniche come Disperato, Perché lo fai o T’innamorerai che al contrario dei colleghi belli e pettinati, parlavano di droga, gravidanze non programmate, disagio e sfighe varie.
Uno spleen esistenziale probabilmente genuino, ma che allo stesso tempo andava a coprire una certa nicchia di mercato della musica leggera italiana dandogli una patina un po’ più fosca e urbana (così come le sue copertine): decisamente meno pettinato di quel pupazzo per ragazzette di Eros Ramazzotti, ma decisamente non una rumorosa rock star sballata (mi raccomando, ricordatevi che siamo in Italia) come Vasco Rossi figlia dei suoi eccessi. In effetti il cantautore fiorentino e il suo amato pianoforte erano decisamente più eleganti e non dispiacevano neppure alla mamma media italiana (che sicuramente canticchiava «Le ragazze serie non ci sono più»).
Probabilmente non è vero nulla e le mie sono solo elucubrazioni senza senso, ma il fatto che il “fenomeno Masini” sia esploso proprio quando finì sotto “l’ascella protettiva” di un marpione della discografia italiana come Giancarlo Bigazzi a me fa venire qualche sospetto di esperimento di laboratorio. Ma lasciamo stare.
Sia quello che sia, Marco Masini tra il 1990 e il 1993 vende quasi 3 milioni di dischi. Lo ripeto: 3 milioni di dischi. Dando la pista a tutti o quasi, e io non posso che tornarmene nel mio angolo in silenzio, perché ha vinto lui. Poi sono cominciati i Vaffanculo e i Bella stronza e la trasformazione da artista di successo ad auto-parodia del “cantante che dice le parolacce”, con paranoie di persecuzione come se il mondo intero, malefico e invidioso del suo talento cristallino, avesse l’unico scopo di mettergli i bastoni tra le ruote, quasi che da questo dipendessero gli equilibri geopolitici del post Guerra Fredda.
Tolto tutto questo rumore di accuse varie, rimane solo lo sciabordio del successo che viene e che va, perché il quarto album Il cielo della vergine ridimensiona pesantemente il ruolo di Marco Masini nel mondo discografico italiano non riuscendo a continuare il filotto di album vendutissimi, fermandosi poco prima di “solo” 400.000 copie. Apriti cielo e per un ego un tantinello smisurato che lo porterà, nell’ordine, a rompere il sodalizio artistico con Giancarlo Bigazzi, tentare una svolta artistica improbabile, ritornare rapidamente sui propri passi con un ritorno al Festival di Sanremo piazzandosi penultimo, e poi a maledire il music business e i giornalisti perché, a suo dire, venne ostracizzato per presunte questioni di portare jella.
A prima vista un esempio poco edificante di bigotto provincialismo , ma se ci riflettiamo un attimo questa storiaccia venne fuori proprio quando la sua popolarità era in tragico declino, e lui stesso si associava alla tragedia di una grande interprete come Mia Martini, annaspando alla ricerca disperata di quell’attenzione oceanica che fu. Anche in questo caso probabilmente sono io a pensare male e fu veramente la casta dei giornalisti che, incappucciata, si riunì in una chiesa sconsacrata una notte di luna piena e decise che quel Masini lì doveva sparire perché le sue canzonette davano fastidio ai poteri forti.
Vaffanculo ai giornalisti, vaffanculo al paroliere Bigazzi, vaffanculo alla casa discografica e vaffanculo al pianoforte e alla musica che lo ha reso popolare e vaffanculo anche al vecchio look, visto che ci siamo. Ecco che nel 1998 nel pieno del turbinio dei mutamenti musicali degli anni ’90 esce il fondamentale Scimmie, scritto, cantato, suonato, arrangiato e pubblicato da Marco Masini per la sua neo fondata etichetta Ma.Ma., simbolo della sua (ri)trovata libertà artistica con una svolta decisamente rock. O almeno questa era l’operazione di marketing legata alla pubblicazione dell’album.
Un nuovo e quasi irriconoscibile Marco Masini con capelli e pizzetto completamente decolorati (forse perché facevano rock?) a imbracciare impacciatamente una Gibson Firebird, quasi che nella sua mente bastasse questo a trasformarlo in una rock star. Sembra quasi di rivedere l’operazione Fabbrica di plastica del buon Gianluca Grignani, ma con ancora maggiore superficialità.
Diciamolo subito. Scimmie è una fregatura, un’immensa fregatura. Di canzoni rock ce ne sono 2 e mezza: la title track che vorrebbe essere un inno da stadio con quell’odioso «nananana» e soprattutto la tiratissima Falso (più potente di qualsiasi cosa abbiano inciso i concittadini Litfiba in quegli anni, e farsi stracciare malamente da Marco Masini la dice lunga su cosa erano diventati Piero e Ghigo mentre rincorrevano i successi del Festivalbar). Un fuoco di paglia, non a caso piazzate all’inizio del disco, che fa rima con esercizi di stile, tra l’altro senza la minima credibilità.
Da qui in avanti cominciano ad arrivare canonicissimi brani pop con una produzione meno patinata e pesante rispetto al passato e testi (scritti con Beppe Dati) a metà tra l’esistenzialismo novecentesco e il nonsense. Il disco, non solo si sdraia completamente nel giro di 15 minuti, ma lascia nelle orecchie una sensazione non troppo piacevole di colossale patacca musicale. Forse anche per colpa del citazionismo compulsivo. Sì, perché questo Scimmie é letteralmente imbevuto di “omaggi” provenienti direttamente dalla scuola di Zucchero e Led Zeppelin. Talmente ingenui che fanno quasi tenerezza e anzi questi continui «questa mi ricorda…» rendono l’ascolto quasi divertente.
Senza fare una carrellata di ogni singolo brano l’impressione è di trovarsi di fronte a un cantautore disperato (ops…) ma tenacemente convinto di poter ritrovare la gloria del successo passato rinfrescando la propria proposta musicale. Non basta però ascoltare compulsiva mente tutto quello che vendeva in quegli anni (Oasis, Verve, Skunk Anansie, Moby) e mischiarlo con rimandi a certi anni ’70 (la musica prog e i Bee Gees) per crearsi una nuova verginità, perché, in fondo, Marco Masini rimane uguale a sé stesso a dispetto degli sforzi.
Un esperimento cominciato male e finito peggio, schifato dai fan e quindi tutti a casa e palla al centro. Il baratro, però, arriderà qualche annetto più tardi quando avrà la brillante idea di incidere una tragica cover in italiano di Nothing Else Matters dei Metallica. Il cringe prima del cringe.
Contro tutti i pronostici, il nostro, toccato il fondo, è riuscito a ritrovare il successo nel 2004 sulla via di Sanremo (e ti pareva), magari non proprio il successo di una volta, giocando questa volta con una poetica decisamente più conforme ai canoni tradizionali e senza parolacce inutili: naturale maturazione oppure una decisione opportunistica? A voi la scelta. In fondo tutto è bene quel che finisce bene.
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