Per raccontare la storia dei “dischi bianchi” di Lucio Battisti si potrebbe partire benissimo con un incipit degno di una favola e più o meno suonerebbe così: c’era una volta il cantante più nazional-popolare mai avuto sul suolo italico che un bel giorno decise di sparire dalla scena pubblica, rompere un sodalizio pluridecennale con Mogol, a sua volta uno dei più famosi e importanti parolieri della musica di casa nostra, fatto di innumerevoli successi entrati per sempre nella memoria collettiva, per darsi a una nuova produzione musicale tanto suggestiva quanto indecifrabile, ostica e anomala. E i fan NON vissero tutti felici e contenti. Ma procediamo con ordine.
1982-1986: da E già al Don Giovanni passando per Adriano Pappalardo
Dal 1980 la storica coppia Mogol-Battisti non esiste più. Il binomio che pareva indissolubile e che riempì il juke box della musica italiana di classici intramontabili si congeda con il sottovalutato Una giornata uggiosa, un album che contenteva nell’ultima traccia, la famosissima Con il nastro rosa, due versi cui era impossibile prevedere una risposta: «Chissà che sarà di noi? / Lo scopriremo solo vivendo».
Dopo la parantesi del primo album post Mogol E già del 1982 dove i testi sono scritti da Grazia Letizia Veronese, la moglie di Battisti (anche se c’è chi pensa che fu Lucio stesso l’autore), galeotto fu il disco di Adriano Pappalardo, un personaggio che a pensarla oggi, viste le sue frequentazioni con la TV spazzatura nel suo recente passato, si fatica a immaginare accanto a un patrimonio nazionale come Battisti.
Amiconi di lunga data legati dalla passione per il windsurf i due lavorano a Oh! Era ora, il sorprendente album elettronico di Pappalardo del 1983 per il quale Lucio oltre a curare la produzione suonò la chitarra e il sintetizzatore. Fu proprio in quel contesto che il cantante di Poggio Bustone ebbe modo di provare di prima mano l’autore dei testi dei brani: il poeta Pasquale Panella che per quell’occasione utilizzerà lo pseudonimo di Vanera.
Ma chi era Pasquale Panella? Da una parte un poeta noto per le sue liriche ermetiche, costruite su giochi di parole, doppi sensi e immagini surreali, già collaboratore del giovane Enzo Carella che diventerà paroliere non solo di Battisti ma anche d’innumerevoli big della canzone pop italiana (Zucchero, Mina, Mango, Anna Oxa e tanti altri), dall’altro è il responsabile del ritornello di Vattene amore, nefasto duetto tra Amedeo Minghi e Mietta con quel terribile «trottolino amoroso / du du, da da da».
La nuova coppia sforna il primo album nel 1986 con il titolo di Don Giovanni, probabilmente uno dei più bei dischi in assoluto di Battisti, ma allo stesso modo un disco di transizione: da un lato muscalmente ancora legato al “vecchio Battisti” in cui Panella inserisce le parole sulle melodie già scritte dal cantante, dall’altro i testi instillano nell’ascoltatore un senso d’estraniamento marcando indelebilmente il confine del “nuovo Battisti”.
Nonostante la singolarità dell’opera il pubblico l’apprezzò e le vendite garantirono un terzo posto nella classifica dei dischi più venduti di quell’anno chiudendo di fatto il periodo del successo commerciale di Lucio Battisti. Con i successivi quattro “dischi bianchi” (per via delle copertine spoglie e minimali) ci sarà un progressivo e inesorabile crollo delle vendite sia per la mancanza assoluta di promozione, sia per la proposta artistica avulsa dalla musicalità del repertorio precedente dell’autore non ché della musica contemporanea tutta. Veri e propri oggetti alieni, presentati alle case discografiche a scatola chiusa, di cui solo negli ultimi anni si sta scoprendo l’effettivo valore e che testimoniano tutto il coraggio di Lucio Battisti nel voler perseguire una propria scelta di ricerca musicale a prescindere dai gusti del pubblico.
L’apparenza (1988)
Negli anni’80 Lucio era così distante dall’artista che era stato più di dieci anni prima e nel 1988 l’uscita de L’apparenza mise subito in chiaro le cose, ovvero che il suo nuovo percorso non era nato per dare vita ad un unica opera e che i fan potevano mettersi l’anima in pace: i tempi delle melodie e dei ritornelli da cantare a squarciagola erano più che finiti.
Con questo disco il modus operandi della lavorazione viene completamente invertito e le musiche vengono adattate a testi precedentemente concepiti. Ed è proprio questo cambio di schema lavorativo che rende il lavoro il meno riuscito del lotto proprio perché, pur sfoggiando le stesse caratteristiche dei dischi che verranno e la stessa ottima realizzazione, risulta il meno memorabile.
Durante l’ascolto sembra quasi che lo stesso Lucio debba prendere confidenza con questa nuova strada compositiva e quei pochi accenni di melodia che compaiono qua e là non sono accattivanti come nel disco precedente. Specchi opposti, Dalle prime battute o A portata di mano emergono rispetto alle altre composizioni per più di un tocco di bellezza ma si tratta di una bellezza di caratura minore.
C’è da segnalare, inoltre, un punto d’arrivo e uno finale: il primo riguarda la copertina per la prima volta totalmente bianca e raffigurante il disegno di una semplicissima credenza scarabocchiata (d’ora in avanti le copertine saranno realizzate dal cantante stesso), il secondo vede per l’ultima volta la presenza degli archi come parte integrante degli arrangiamenti.
La sposa occidentale (1990)
La sposa occidentale raggiunge ancora una volta le alte vette della classifica ma fu solo un fuoco di paglia fomentato dalla speranza, malcelata, dei fan di ritrovare le canzoni del Battisti che fu. Risulterà essere solo il 17° più venduto dell’anno, segno di una crescente perplessità da parte del pubblico ma anche della critica. Tuttavia Lucio Battisti non solo non cederà mai di un passo rispetto alla sua concezione della musica, convinto che sia il pubblico a dover andare incontro all’artista e non viceversa, ma affinerà certe caratteristiche già apparse ne L’apparenza, quali un totale utilizzo di strumenti elettronici e un’abbondante presenza di certe sonorità dal sapore quasi dance.
Il risultato finale di questa ricerca vede la luce nel 1990 non più pubblicato con la sua Numero Uno ma dalla CBS e sfoggia in copertina questa volta un quadro stilizzato. Alla produzione troviamo per la seconda volta il produttore inglese Greg Walsh (già produttore e batterista per Don Giovanni), collaboratore di Battisti come tecnico del suono ai tempi dell’album Una donna per amico, che fu il primo disco che venne registrato a Londra così come tutti quelli seguenti.
Il secondo disco bianco è un gradino superiore del suo predecessore, confermando e migliorando le solite caratteristiche stranianti della nuova produzione che ricordiamo essere musica volutamente fredda con testi cervellotici e complessi. Eppure questa volta fa capolino più d’una intuizione melodica: i brani risultano meno ostili all’ascolto e su tutti vale l’esempio della splendida title track che ebbe addirittura l’onore di essere trasmessa frequentemente in radio e ricordata per certi passaggi del testo spiazzanti e geniali quali:
Vuoi prendere un treno di notte pieno di paralumi e di damasco per dormire
se no a che serve un treno?
L’atmosfera generale risulta essere totalmente immersa in un’algida matrice elettronica per certi versi straniante (se accostata alla voce di Battisti) alle orecchie di chi ancora non è abituato a concepirlo come un artista d’avanguardia, ma in generale il disco funziona e tra i suoi brani migliori spiccano Campati in aria e Potrebbe essere sera. Tutte canzoni che non potranno mai e poi rivaleggiare con il suo passato musicale in termini di popolarità ma che proprio per questo motivo risultano affascinanti, per via di quest’aura misteriosa che li rende ancora oggi indecifrabili e quasi immanenti.
Cosa succederà alla ragazza (1992)
Passano altri due anni e la vena prolifica della coppia Battisti-Panella non solo non si placa ma non vede alcun calo di tono. I due proseguono imperterriti nonostante le vendite siano un pallido ricordo dei fasti di un tempo e il pubblico inizi a rimpiangere il vecchio compagno d’avventure Mogol, tanto che alle voci di una possibile riconciliazione tra quest’ultimo e il cantante reatino tutti sperano nella futura uscita di un lavoro che ricalchi i successi del passato con le sue atmosfere semplici e cantabili. Questo non accadrà mai e l’uscita di Cosa succederà alla ragazza nel 1992 afferma invece che il sodalizio con il nuovo paroliere è saldo e dà frutti sempre migliori.
Prodotto stavolta da Andy Duncan (ha lavorato tra gli altri con Wham!, Robbie Williams e Pet Shop Boys tanto per citarne qualcuno) e con in copertina le semplici iniziali C.S.A.R. scarabocchiate a mano, il disco vira ancora in maniera più estrema su sonorità che spaziano dall’elettronica quasi ballabile della title track al dub di Però il rinoceronte e Ecco i negozi (che vede anche alcuni punti di solo parlato), fino a echi di quasi-rap in Cosa farà di nuovo.
Il tutto però stavolta giostrato con melodie più orecchiabili del solito e strutture che riportano a una costruzione più ordinaria dei brani. Fra tutti spicca La metro eccetera, forse il brano più tradizionale di tutti quelli contenuti nei dischi bianchi con il suo bel testo più comprensibile del solito che parla dei viaggiatori di un vagone della metropolitana e della loro solitudine con versi come:
La metro, i seduti di fronte
sono semplicemente gli avanzati
dal viaggio precedente
che andava dove vanno
tutti i presentimenti, eccetera
Curiosamente, di questo brano ne farà una cover raccolta in un tributo a Battisti Max Pezzali (unica canzone su due CD del periodo “panelliano”).
Hegel (1994)
Nel 1994 questo lungo “viaggio bianco” vede la fine e sono molte le persone che in quella semplice “E” maiuscola posta sulla copertina del disco ci leggono la parola “end”, fine appunto. Dopo la parentesi della CBS prima e della Columbia poi, Lucio Battisti ritorna là dove tutto era iniziato, all’etichetta Numero Uno, e qui chiude in modo definitivo la sua ultraventennale carriera artistica con un lavoro, l’unico della sua carriera a essere uscito inizialmente solo su CD, il cui titolo è tutto un affascinante programma: Hegel.
Sono molti i richiami alla vita e al pensiero del filosofo tedesco che si possono riscontrare tra i versi dei vari brani, dove la coppia Battisti e Panella si mostra come siano diventati degli abili artigiani nel far convivere perfettamente melodia e ostilità. È il caso della title track come di Estetica, Tubinga (il nome della città dove Hegel visse e insegnò) e La bellezza riunita, La moda del respiro o La voce del viso che fanno di questo album una vera perla. Canzoni strabordanti di ritmiche incisive, pulsioni elettroniche, computer, suoni freddi e testi ancor più che mai complessi e suggestivi. Quei testi che, per tutta la durata della loro collaborazione, Lucio leggeva e giudicava perfetti solo se non ci capiva niente.
Hegel ha il compito di chiudere il cerchio sulla sua straordinaria carriera artistica. Già subito dopo la pubblicazione Panella dichiarò che sarebbe stata la sua ultima collaborazione con il cantante. Seguirono quattro anni di silenzio totale conditi da voci di alcuni inediti scartati dalle pubblicazioni dei dischi precedenti, una nuova collaborazione con Mogol e addirittura la presunta esistenza di un disco mai pubblicato e conosciuto tra i fan e gli addetti ai lavori con il nome di Postumo.
Purtroppo Lucio Battisti scomparve il 9 settembre 1998 e anche la sua morte rimase avvolta nello stesso silenzio che aveva accompagnato la sua vita negli ultimi 18 anni, lontano dalle luci del palcoscenico, dai media e dal pubblico. Un silenzio che ancora oggi avvolge la sua figura in quanto la famiglia, proprietaria delle edizioni musicali, è restia a cedere autorizzazioni e approvazioni a qualunque iniziativa riguardante la commemorazione della sua musica, siano esse cover dei suoi brani, festival, pubblicazione del catalogo musicale su internet.
La sua musica tuttavia oggi è ancora più viva e celebrata che mai. Ovviamente è il periodo con Mogol quello che fa più incetta di ricordi, celebrazioni nostalgiche tanto care a Carlo Conti o prodotti copia carbone come gli Audio 2 che ci hanno costruito sopra una carriera, mentre “il periodo bianco” spesso o non viene capito oppure viene liquidato frettolosamente come cervellotico. In realtà questi album rivelano tutto il coraggio di un artista (sicuramente privilegiato da ricchezza, fama e forza contrattuale) che rinunciò alla visibilità, alle classifiche e alle alte vendite per poter semplicemente fare quello che desiderava: sperimentare, scoprire nuove soluzioni musicali ed essere coerente con se stesso, senza condizionamenti da quel mondo esterno da cui era faticosamente fuggito.