Nel corso degli anni ’70 l’Italia era un paese soggetto a forti imposizioni morali che si trovava ad affrontare un periodo difficile di cambiamenti politici e sociali, radicalizzazione e impegno politico, ma allo stesso tempo estremamente fecondo di stimoli che prendevano vita in un ricco sottobosco controculturale assai poco noto ancora oggi.
Ed è proprio in parte da quel sottobosco che è nato questo curiosissimo quanto rarissimo libricino. Il Libro bianco sul pop in Italia – Cronaca di una colonizzazione musicale in un paese mediterraneo (pubblicato da Arcana nel 1976) non è altro che un piccolo e oscuro saggio anonimo che si pose in maniera particolarmente controcorrente e talvolta provocatoria per cercare di inquadrare il fenomeno della musica pop nel nostro paese.
Il termine pop non sia fuorviante perché all’epoca inquadrava la popular music di cui scrisse diversi saggi Franco Fabbri, includendo le canzonette radiofoniche usa e getta quanto la musica progressiva e i cantautori più impegnati, non risparmiando in fin dei conti pressocché nessuno in una critica feroce e iconoclasta legata a un modo di pensare, di parlare e di agire tipicamente anni ’70.
Nel corso degli anni si è molto speculato sugli eventuali autori dell’opera (da alcuni giudizi contrastanti riportati all’interno dell’opera è facile intendere che sia stato opera di più di due mani), talvolta speculando su personalità vicine al mondo della musica o su membri (o ex-membri) della redazione di qualche rivista musicale alternativa come Muzak o Re Nudo, veri e propri mostri sacri delle pubblicazioni controculturali italiane (alcune voci riconducono gli autori al gruppo Pintor fuoriuscito proprio da Muzak).
Nelle 200 paginette scarse viene esposto il concetto di colonizzazione e di come l’Italia non sia stata mai veramente indipendente dal punto di vista musicale; sempre succube di logiche commercali estere e orfana di un movimento musicale originale e proprio, divenne di fatto una sorta di “colonia” musicale e commerciale anglo-americana. (stiamo parlando di metà anni ’70, chissà che cosa ne scriverebbero oggi).
Il pop, così come è cresciuto in Italia, [è] una forma senza mezzi termini di colonialismo musicale e culturale: convinti come siamo che si dà colonialismo quando il paese economicamente più forte (e quindi come capacità di produzione di cultura come merce) riesce a imporre il suo patrimonio culturale come patrimonio universale e internazionale.
Viene così esposta la storia di questa trasformazione nei suoi lati meno noti (e forse anche più scomodi): dalla prima fase in cui il rock’n’roll arrivò in Italia alla fine degli anni ’50 rimanendo però un fenomeno di margine e non totalizzante, relegato ad alcune occasionali e bizzare personalità ristrette del mondo musicali, quali il primissimo Adriano Celentano o anche i meno noti Clem Sacco, Roby Milione e tutto il mondo degli urlatori e dei primissimi rocker di casa nostra. In fin dei conti in Italia negli anni ’50 e primi ’60 i valori democristiani erano ancora troppo forti per poter essere minimamente scalfiti o messi in discussione e allo stesso tempo il jazz e la musica colta venivano rinchiusi gelosamente in maniera elitaria fuori dalla portata di tutti.
Tra il 1964-1970 vi è una seconda fase segnata dall’epopea dei Beatles e della British invasion, vero e proprio inizio della fase colonizzatrice in Italia e che portò alla nascita del beat: un fenomeno di gruppi di giovani italiani che facevano principalmente cover di brani stranieri più o meno famosi storpiandone e banalizzandone i testi completamente riscritti in italiano. Di fatto l’Italia accettò di esprimersi musicalmente con la lingua dei conquistatori generando tanti brani di successo noti ancora oggi, ma non creò un movimento culturale coerente e forte. Già nel 1968 ogni minimo punto di forza di questa fase si assopì divenendo semplicemente una moda, vista con ilarità e spesso presa in giro dalla società, dalla TV e dagli stessi giovani che trovarono aggregazione in gruppi più politicamente impegnati e, seguendo questa logica, “anticolonialisti”.



La colonizzazione era così avvenuta sopratutto per colpa dei discografici, della stampa e dei media italiani che crearono ad hoc un interesse che forse difficilmente sarebbe arrivato in altro modo, portando a una sorta di regressione culturale. Ciò generò anche alcuni piccoli e sinceri segnali di risveglio in chi vedeva nel fenomeno dei complessi beat il simbolo di una ribellione verso la vecchia società italiana, ma in quel perodo solo i giovani di famiglie benestanti potevano permettersi di registrare e mettersi in mostra, portando così a una mancanza di veri valori provenienti dal basso.
Si arriva così agli anni ’70, epoca in cui il libro stesso venne scritto, in cui gli autori vedevano già possibile l’affermarsi pienamente di una fase consapevole di riscatto e battaglia culturale contro i colonizzatori, lo sviluppo di una maggiore sperimentazione italiana e di un tentativo di independenza dalla cultura dominante d’oltreoceano tra gruppi politici, la nascita del cantautorato (e quindi il predominio delle parole sulla musica), della musica impegnata e sperimentale.
Si narrano le battaglie di quegli anni contro il concetto di “concerto lager”, della liberarizzazione degli eventi musicali e del Festival del Proletariato Giovanile al Parco Lambro a Milano. Un momento storico in cui ci si batteva contro la mancanza di strutture per la diffusione della musica speimentale, contro una musica “per le masse” e non “delle masse”. contro le speculazioni delle leggi di mercato e contro i prezzi dei dischi e dei biglietti dei concerti, musica spacciata per ribelle in concerti-ghetto venduta a prezzi troppo alti.
Per gli autori la musica è tutta proprietà delle elite snob borghesi, sia la musica colta sia la musica pop(olare) sono solo un prodotto svalutato e assorbito da metodi borghesi di commercio e vendita. Con questa logica viene attaccata sia la musica colta che il cantutorato, soffrendo per la mancanza di vera avanguardia in Italia dove canzonette sempre più scadenti venivano spacciate per “colte” e impegnate.
Libro bianco sul pop in Italia è un formidabile reperto storico che deve necessariamente essere letto alla luce dell’epoca in cui venne ideato e da ammirare almeno per la predisposizione ad analizzare e mettere in dubbio luoghi comuni e certezze sempre imposte come tali.
Tra i musicofili appassionati il Libro bianco sul pop in Italia non viene però ricordato per questa analisi militante ed appassionata (ormai troppo distante non solo a livello temporale), bensì per i suoi giudizi sprezzanti e audaci proposti nell’appendice finale; 20 pagine cariche di giudizi sprezzanti provenienti da un occhio sicuramente limpido rispetto a quello dei media, ma carico di ideologia.



Si va così da Francesco De Gregori «compone pezzi che sono un concentrato di nullità, abbelliti da testi crociani ma non di eguale capacità critica, pseudointellettuali al ridicolo e terribilmente simulati […] maschera le sue intenzioni, reazionarie senza mezzi termini, con ideologie che di rosso non serbano neppure il colore.» ad Antonello Venditti «Iscritto al PCI, laureato in giurisprudenza, ama la bella vita e le cenette a base di caviale, aragosta e champagne. […] Non sa suonare il piano e lo suona, ha una voce abbastanza pulita e compone testi che fanno morir di pianti i romani più nostalgici (e forse pur reazionari).» passando da Claudio Baglioni definito «ottuso […] il cui scopo è quello di inebetire», Orietta Berti bellamente sbeffeggiata come «Caposaldo della “musica” oggi evoluta […], è al suo pieno potenziale nel doppio album “italiane come noi”, non ancora fuori catalogo. Si consiglia per un’accurata documentazione il suddetto album (polydor 1972) oppure il “meglio di Orietta Berti” pubblicato nella notte dei tempi, ma, sfortunatamente, ancora reperibile», fino a Adriano Celentano criticato per la sua vacuità e la sociologia distorta finto-impegnata di cui si faceva portatore e Fabrizio De Andrè «Dall’aria triste e meditabonda, […] ha svolto negli anni passati il ruolo di cantautore impegnato, ma non troppo, deunciando situazioni in cui difficilmente s’è trovato se non a livello emotivo. Borghese di nascita, d’adozione e di intenti rifiutava d’esibirsi in pubblico fino a quando le vendite dei suoi dischi hanno subìto un tracollo. […] Le migliori esecuzioni dei suoi pezzi si ascoltano sulle spiagge e sui monti, quando un chitarrista che conosce due accordi vuol consolare l’amico di una sbronza finita male.»
Non mancano gloriosi gruppi prog massacrati senza pietà dagli Osanna alla PFM «Come cinque innocui musicisti possano divenire cinque uomini d’affari ce lo ha dimostrato la PFM dopo la pedissequa imitazione dei modelli inglesi», dal Banco del Mutuo Soccorso «Dal vivo eran precisi e ora sono insopportabili. Perché ogni appunto viene circondato da una barriera di note al limite della nevrosi e la perizia strumentale si confonde con la velocità e con la forma, estrapolando ogni senso dal contenuto sonoro» a le Orme «Non esiste in Italia un gruppo più pretenzioso e inconcludente», fino agli Area «Il loro pseudo intellettualismo da scalatore sociale, non pare altro che la smania di un proletario condizionato a divenir borghese. Ossia la famosa “rivoluzione da salotto” che pretende di farsi a furor di popolo.»
Grande assente in questa carrellata è Lucio Battisti per cui gli autori si limitano a dire che «è inutile spendere una riga».
Pochi i promossi tra cui Francesco Guccini «ha composto le pagine più significative del beat italiano […] Dovrebbe ritrovare la forza di combattere e non dedicarsi esclusivamente alla rassegnazione per la disfatta di un movimento che in Italia non è mai esistito», Lucio Dalla, il primissimo Franco Battiato, Edoardo Bennato «Visto che i cantautori italiani sono così inetti, facile è per Bennato esserne il migliore.» ma soprattutto gruppi come il Canzoniere del Lazio e la Nuova Compagnia di Canto Popolare degni di portare avanti un qualcosa di inedito ma allo stesso tempo di originalmente inquadrabile come musica indipendente da influenze estere. Secondo gli autori, questi erano i simboli di una determinazione e di un anticoloniasmo che stava per palesarsi da lì a poco. Chissà che cosa ne avrebbero pensato del futuro degli artisti sovramenzionati, dell’imminente ultra-consumistica febbre della discomusic, dell’adozione casereccia del punk, dell’esplosione del rap e della scena musicale attuale nel nuovo millennio.