Parlare dei Piero Pelù è davvero difficile per chi ha almeno una quarantina d’anni. Sì, perché prima che diventasse il cocco della TV in prima serata, prima che decidesse di diventare la parodia di sè stesso con un look da pirata gitano tra una «uha» e un miagolio, prima che pensasse di essere un cantautore pop, prima che andasse a presenziare al Festival di Sanremo… Insomma prima che si rincoglionisse, Piero Pelù era una belva.
Anche volendo lasciare da parte le scelte di presenzialismo a favor di portafogli (a suo modo comprensibile, perché il mutuo per la piscina bisogna pur pagarlo), la cosa davvero scioccante è l’involuzione non solo del personaggio, ma dell’artista che fu la voce e la faccia dei magnifici Litfiba nella seconda metà degli anni ’80 (e a suo modo anche nei primi anni ’90) quando incantave gli spettatori dipingendo un concetto con tre parole, mentre oggi non gli basta neppure un disco intero per andare oltre delle banali ovvietà.
Giusto quindi andare a fare il punto della sua disgraziata carriera solista, ma molto difficile scegliere il meglio del peggio perché la scelta è davvero troppo, troppo vasta, con innumerevoli oscenità come Io ci sarò, Presente, Gigante, Amore immaginato, UFO su Firenze o Luna nuda, che sarebbero perfetti scheletri nell’armadio di qualunque artista, ma che qui non riescono neppure a piazzarsi tra i 10 episodi piú “memorabili”.
Il mio nome è mai più (con Jovanotti e Ligabue) (1999)
Il primo passo nella carriera solista di Piero Pelù fu questa “favolosa” collaborazione con altri due pezzi da 90 della musica di consumo italiana: Jovanotti e Ligabue. Se solo 5 anni prima sarebbe sembrato improbabile vedere Pierone duettare con il «ragazzo fortunato» e il menestrello di Correggio, nel 1999 dopo «un ritmo pa’ bailar» e «il mio corpo che cambia» le cose erano cambiate (esattamente come il conto in banca). Così con la nobilissima (per carità) scusa di una raccolta fondi a favore di Emergency per aiutare le popolazioni colpite dalla guerra nei Balcani, ecco che nasce questo singolo-tormentone Il mio nome è mai più, che trasuda sofferenza, dolore e distruzione… per l’ascoltatore.
Pappagalli verdi (2002)
Sempre in prima linea quando si tratta di problemi sociali ecco che Piero ci si butta a capofitto con piu cuore che cervello, però. In questo caso si tratta del tragico problema delle mine autiuomo che vene narrato nel brano Pappagalli verdi a chiusura del suo secondo album solista U.D.S. – Uomo della strada. Uno spoken word didascalico che descrive questi mefistofelici ordigni con il pathos che può trasmettere un tronco di larice. Piero Pelù gioca a fare Piero Pelù, quasi che godesse ad interpretare la macchietta di sè stesso.
Toro loco (2000)
Quando Piero Pelù si butta sul latin-rock mi si scatenda dentro un’invereconda tristezza (anche ai tempi dei Litfiba sia chiaro). L’esempio più basso di questa fissazione è certamente la famigerata Toro loco, una della canzoni più fastidiose dal primo dopoguerra ad oggi con quel cazzo di fischietto che ti verrebbe voglia di ficcarglielo rabbiosamente in gola (o in altri orifizi a voi la scelta). Qui Piero Pelù torna a vestire i panni del bandido latino (anche se l’aspetto è quello di un circense) e a sparare cazzate senza senso alla ricerca di una rima rima baciata «Toro loco hai quel fuoco / hai quel sole e le parole / come fare cosa dire / devi solo farti capire».
Bomba boomerang (2000)
Il livello di fastidio aumenta con l’altro singolone Bomba boomerag dove Piero Pelù raggiunge livelli altissimi di autoparodia involontaria, tanto da farmi pensare che si trattasse davvero di un’imitazione. Lasciando da parte l’ormai ex diablo del rock italiano la canzone ha una melodia elementare e un testo senza capo né coda. Ciliegina sulla torta un videoclip da quattro soldi con Pierone in veste di rocker aborigeno e la sua band che pare uscire dal set di Attila flagello di Dio.
Marrakesh Serenade (2000)
Il primo album solista Né buoni né cattivi, oltre ai singoli deprecabilissimi nasconde una manciata di canzoni meno note ma ancora più assassine con un Piero Pelù assolutamente allo sbando che pare cantare qualsiasi cosa sperando in qualche passaggio in radio, TV e Festivalbar (ebbene sì, siemo ridotti così). Marrakesh serende è un pasticcio poliglotta dal sapore (improvvisamente) mediorientale: il testo di fatto si riduce solamente a «Perché tu hai me, perché io ho te» ripetuto in diverse lingue senza poi chiarire perché accada tutto questo. Personalemnte penso servisse una canzone in più per finire il CD.
Big Bug (2000)
Piero Pelù non è sensibile solo ai problemi sociali, ma anche a quelli più spicci, come quello del millennium bug, un problemino informatico che doveva mandare il mondo nel caos allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 1999: rivolte, incendi, aerei che precipitavano e satelliti impazziti. Non successe nulla di tutto questo. L’unico casino ce l’aveva in testa il nostro mentre sbiascica supercazzole sul nuovo anno in italiano e in inglese (ma parché?) su un ritmo funk e ballabile (i tempi di Re del silenzio o anche Maudit sono lontani anni luce), prova della totale disperazione e mancanzia di alcuna direzione artistica.
Cuore matto (Littel Tony cover) (2020)
Se nel 1985 qualcuno gli avesse proposto di cantare una cover di Little Tony, Piero Pelù gli avrebbe pisciato in faccia. Nel 2020 invece pare una genialata per far sculettare la platea rincoglionita del Festival di Sanremo spacciandosi per rocker maledetto: ma vaffanculo, va! Siamo onesti, la sua versione di Cuore matto è livello di karaoke, ma senza senso dell’umorismo. Questa inspiegabile pagliacciata sembra quasi un omaggio involontario a quello che fece il mai troppo compianto Lorenz (l’Elvis romagnolo di Mai dire TV) quando incise una versione rock di Romagna mia.
Homo europeus (2000)
Piero Pelù in uno stato confusionale ci regala una megnifica perla da ritiro immediato della patente di autore: l’inenarrabile Homo europeus è un pastrocchio funky-rock con improbabili «yo pòpòpòpòpò». Il testo è davvero rimarcabile snocciolando alla rinfusa un’inutile vagonata di luoghi comuni spacciati come lampi di saggezza proferiti dal re del rock come «non è tutto oro quello che fa luce / non è tutta merda quella che non piace» fino a sfondare il muro del nonsense involontario: «Ai blocchi di partenza siam fermi già da un po’ / si cerca un capitano ambarabà cicci coccò / la selezione è dura truccata da roulette / e la vecchia apocalisse ritorna in mille risse».
Picnic all’inferno (2019)
Piero Pelù versione 2019 raggiunge vette davvero difficilmente eguagliabili: a quasi 58 anni non si limita più a impersonare la maschera del ribelle (contro chi ormai non lo abbiamo capito e penso non lo sappia neppure lui) con terrificanti camice comprate da H&M, ma fa anche lo sbruffone, pensando seriamente di regalare all’universo perle di alto lirismo. Ancora una volta la tematica sociale è la molla per l’irrefrenabile stream of consciousness che il cantante fiorentino condensa nel singolo Picnic all’inferno. Questa volta tira in ballo con ottimo tempismo la giovanissima attivista svedese Greta Thunberg e il suo discorso all’UN Climate Action Summit del 2019: «Piccola guerriera scesa dalla luna / come una nave di vichinghi nella notte scura / alla casa bianca forte come un manga». Sembra una presa per il culo ma è tutto vero. Un abisso che ci fa (forse) rimpiangere «io ti conosco, mascherina ti conosco».
I’ te vurria vasà (con Luciano Pavarotti) (1996)
In occasione del Pavarotti & Friends del 1996 Piero Pelù piomba sul palco come un incrocio fra un cangaceiro scemo (il brigante messicano brasiliano che lottava per la terra) ed un teenager di provincia che pensa di essere punk solo perché ha i pantaloni strappati. “Stranamente” il nostro non sembra a suo agio ad interpretare questo classico della canzone melodica napoletana, sbiascicando come se fosse ubriaco e lasciando a Luciano Pavarotti il compito di tenere in piedi (più o meno) questa triste baracconata. Non vi basta? Alle chitarre il mitico trio Paco De Lucia, Al Di Meola e John McLaughlin, riunito per la mesta occasione. E che occasione. Da brividi (freddi).