gianluca grignani la fabbrica di plastica 1996

La fabbrica di plastica, il mistero del disco cult di Gianluca Grignani

Da una parte la scelta coraggiosa di tentare una strada personale inseguendo The Bends dei Radiohead, dall'altra un risultato più cosmetico che di sostanza

Ultimo aggiornamento:

Come passa il tempo. Se nel 1995 si fosse nominato il nome di Gianluca Grignani a chiuque ascoltava rock alternativo, nel migliore dei casi ti avrebbe riso in faccia togliendoti il saluto, non apprezzando troppo il senso dell’umorismo. Oggi dopo 25 anni invece ti risponderebbe con un sonoro: «La fabbrica di plastica è un capolavoro incompreso della musica italiana», «un album rock come mai ce ne sono stati in Italia», o roboanti apprezzamenti del genere. Ma come è stato possibile che uno dei più sonori flop della discografia nostrana sia diventato un feticcio di culto?

Come nelle migliori storie facciamo un passo indietro: siamo a metà degli anni ’90 e Gianluca Grignani, giovanissimo cantautore cresciuto in Brianza tra Beatles, Elvis Presley e Lucio Battisti, è la nuova stella della musica pop italiana. Scovato e coccolato dal maestro Vince Tempera e Massimo Luca (chitarrista che ha suonato con tutti i grandissimi nomi della musica leggera nostrana), che per la cronaca sono anche gli autori della sigla di Goldrake (assieme al paroliere Luigi Albertelli), tra il 1994 e il 1995 piazza una manciata di inni per ragazzine che inondano le radio italiane e sudamericane con La mia storia tra le dita, Destinazione Paradiso (brano d’esordio al Festival di Sanremo del 1994 nella categoria Nuove Proposte che raggiunse solo un mesto 6° posto) e Falco a metà. In fondo era bello, giovane e con quell’aria da maledetto-soft che faceva impazzire le ragazzine e non spaventava le mamme, sorta di anello di congiuzione tra Raz Degan e Massimo Di Cataldo. Un “prodotto” fresco, genuino, ma anche rassicurante, decisamente sulla scia del cantautorato radiofonico alla Eros Ramazzotti, Luca Carboni e Biagio Antonacci. Nulla di male sia ben chiaro. 

Ora immaginatevi a 23 anni di aver raggiunto il vostro sogno nel cassetto: musicista di successo, improvvisamente ricco, apprezzato dalla critica, con donne a profusione e una carriera spalancata da futura superstar. Bastava continuare a cantare quelle canzonette di amori non corrisposti e piccoli disagi giovanili con testi sempliciotti e frasi da Smemoranda e il gioco era fatto. Invece no.

Forse davvero esasperato per essere diventato un bamboccio per ragazzine con i brufoli (come dimenticare l’esibizione al Festivalbar del 1995 in cui, senza badare al playback si getta scazzato tra le grinfie delle fan urlanti), forse per poca umiltà, forse per genuino interesse verso un altro genere di sonorità (o magari tutte e tre le cose insieme), ecco che decise di ricostruirsi una verginità artistica come menestrello del rock alternativo italiano. 

Giusto per mettere le cose in prospettiva, la scena cui ambiva far parte proprio in quegli anni partoriva dischi come Catartica e Il vile (Marlene Kuntz), Ko de mondo e Linea gotica (C.S.I.), Germi (Afterhours), Mantra e Psycorsonica (Ritmo Tribale), Un mondo nuovo (Disciplinatha), Contro ogni tempo (Movida), Il rumore delle idee (Settore Out), Vita in un pacifico mondo nuovo e Non esistere (Fluxus), Radio (Interno 17), Karma e Astronotus (Karma), Lungo i bordi (Massimo Volume) o Acidi e basi (Bluvertigo). Insomma tutt’altro sport rispetto alle canzonette ben fatte ma super convenzionali del giovane virgulto del pop. 

Con la fissa dei Radiohead di The Bends (uscito proprio nel 1995) usato senza vergogna come vero e proprio feticcio per il nuovo disco, Gianluca Grignani assoldò una buona backing band tra cui spiccano alla chitarra il session man Massimo Varini (apprezzato tra i grossi nomi del pop italico, ma che la musica rock nemmeno sapeva che cosa fosse a parte Vasco Rossi, vabbè) e il terremotante Mario Riso alla batteria (già con i R.A.F. e Movida, ma anche session man prezzemolino che ha collaborato con Jovanotti ma soprattutto nell’album di hair metal all’italiana Rock normale del DJ-rocker Nikki). Il risultato è una sorta di concept autobiografico sui conflitti interiori di una rockstar in cerca d’identità, il tutto con lo zampino dell’arrangiatore e produttore Greg Walsh che ricordiamo con Heaven 17, The Associates, Amii Stewart e soprattutto collaboratore di lunga data di Lucio Battisti dalla fine degli anni ’70 sino ai primi anni ’90.

La fabbrica di plastica è un disco che suona ruvido, spigoloso, sperimentale e sfacciato… ma solo per il fan medio del pop radiofonico italiano. Non ci vuole un orecchio troppo raffinato per rintracciare la scrittura tipica dei successi di Gianluca Grignani solamente rivestiti da strati di chitarre elettriche tra John Greenwood dei Radiohead e scorie post-grunge alla Bush (il bestseller Sixteen Stone venne pubblicato nel 1994) che sono più un rumoroso contorno che vera ciccia. Basta ascoltare la versione acustica di La fabbrica di plastica (lato B del singolo) e le reincisioni del 2016 nella raccolta Una strada in mezzo al cielo per ascoltare in forma più onesta canzoni come L’allucinazione (con una provvidenziale Carmen Consoli), Solo cielo, Più famoso di Gesù (chiara citazione di John Lennon, con Fabrizio Moro), Galassia di melassa (con Federico Zampaglione), La vetrina del negozio di giocattoli (per tacere della tragica versione di La fabbrica di plastica con Ligabue) che dischiudono tutta la loro anima di tipica canzonetta di musica leggera (qui molto meno a fuoco che nel disco di debutto) con testi didascalici, continuamente auto-referenziali e composti da pseudo-slogan da diario di prima liceo.  

Un disco come La fabbrica di plastica merita di essere ricordato per il coraggio (o la sbruffonaggine?) nel mettersi in gioco, ma il rock (alternativo) per il pur volenteroso Gianluca Grignani è più una sorta di Stella Polare piuttosto che una vera indole o necessità artistica. Non troppo malignamente potremmo interpretare l’opera come un capriccio da ragazzino, piuttosto che un genuino desiderio di svolta. Tranne sporadici episodi discreti come la title track, Solo cielo e La vetrina del negozio di giocattoli il disco affonda tragicamente tra il banalotto e lo scarto: L’allucinazione (sfacciata riscrittura di Una storia tra le dita, alla faccia della svolta “rock”), Galassia di melassa (che mischia sensazioni quasi post rock a un ritornello da Festivalbar), Testa sulla Luna (riempitivo buttato nel mucchio per fare numero), l’agghiacciante funk-rock dozzinale di Rok star (perché mai senza “c”?) e intermezzacci come Fanny e Il mio peggior nemico

Unico brano davvero degno di nota è Qualcosa nell’atmosfera che se fosse stato utilizzato come singolo di lancio avrebbe potuto dare un po’ di credibilità all’operazione, invece viene nascosto come traccia fantasma dopo 10 minuti di silenzio in fondo al disco. Un inspiegabile autosabotaggio.

Del Grignani-rock all’epoca non fregò nulla a nessuno, né alle ragazzine che leggevano Cioé, né a chi ascoltava alternative rock, finendo per vendere nemmeno un decimo rispetto al disco di debutto. Cosa ancora più strana il fatto che non fregò nulla nemmeno a Grignani stesso che già con il successivo Campi di popcorn del 1998 mise rapidamente da parte le chitarre distorte ma vendette ancora meno visto che l’onda lunga di Destinazione Paradiso era svanita e le ragazzine avevano trovato altri idoli pop in Alex Britti e Daniele Groff. Fortunatamente per lui la rinascita commerciale arrivò nel 1999 grazie al provvidenziale Festival di Sanremo e poi esplodendo in radio e discoteca nel 2002 con quell’abominio de L’aiuola, che consacrò il ritorno alla “fabbrica di plastica” del figliol prodigo nella quale ora, saggio trentenne, ci sguazzava divertito. Beato lui.

Ma torniamo alla domanda iniziale: perché La fabbrica di plastica oggi viene venerato come una sorta di totem della ribellione rock del vero artista contro la mefistofelica macchina della discografia, interessata solo a creare successi radiofonici usa e getta? Senza aver nulla contro Gianluca Grignani che sembra davvero un personaggio genuino, il disco oggettivamente non ha spostato di un millimetro la storia della musica italiana, non ha portato innovazione, non è riuscito a raggiungere le masse, non ha lasciato tantomeno brani memorabili, è stato anzi una parentesi rapidamente ripudiata nella carriera di artigianato pop dell’autore. Sarà il fascino delle sfide impossibili, sarà che si simpatizza spesso con i perdenti o sarà semplicemente che il tempo ci fa ricordare il passato con tenera malinconia? 

Se vuoi ascoltare la discussione su La fabbrica di plastica clicca qui per riprodurre l’episodio del nostro podcast Infedeli alla linea.

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  1. Finalmente una recensione equilibrata e realistica del disco in questione. L’ho sempre detto anch’io, in realtà è il solito disco di Grignani, con le solite canzonette di Grignani sporcate da una produzione finto-sporca/alt-rock ’90iana. Ma è solo la scorza. E’ il solito disco di Grignani. Io che ai tempi ero in fissa con gli Starfuckers di “InFrantumi”, tanto per rimanere in Italia, non ci cascai da allora.

  2. Come darvi torto. Un appunto però lo faccio: questo disco risibile e goffo venne acclamato da certa pseudocritica già all’uscita. Tanto che una nota rivista musicale (storica x altro ndr.) oggi defunta in versione cartacea ma presente online continua, pervicacemente, a inserirlo fra i 100 album più importanti della musica italiana…. Tutto vero.

  3. Poi peró vi lanciate in lodi sperticate per i pallosissimi, inconcludenti e floppissimi dischi “bianchi” di Battisti, annotando una genialità segreta che in realtà avete notato solo voi…eppure la storia è simile: artista pop che più pop non si può, si stufa delle hit e si mette a fare cose a-melodiche e senza promozione.

    1. Senta, “Zio Tom”, ci (a noi tutti: generico generale!) faccia un piacere.
      Eviti di dare del “pallosissimi, inconcludenti e floppissimi” ai dischi bianchi di Battisti.
      Per uno come me la parte migliore della vita discografica del Lucio inizia proprio con e dopo la Giornata Uggiosa e il definitivo abbandono di Mogol, gran marpione, questo, e troppo monocorde con le sue smielate atmosfere.
      L’aria che si respira negli ultimi lavori di Lucio è un’aria cerebrale, veramente libera, essenziale.
      Ma già il Battisti era entrato nel periodo del “rifiuto” dello showbiz e di certe meccaniche che a lei piacciono tanto, ed Infatti a riprova c’è che il brano più bello del nostro cantautore, ovvero “Il Gabbianone”, è rimasto inedito e mai inciso ufficialmente.
      Se mi consente poi il parallelo Grignani/Battisti non regge: sarebbe come mettere a confronto Padre Pio con Papa Giovanni XXIII (per dire…esempio ai limiti…).
      Il Grignani non ha avuto la costanza e la serietà professionale di Lucio: ha avuto quei cinque minuti di successo, si è montato la testa e…ed è caduto rovinosamente in disgrazia (ma ha visto che scena con D’Alessio?).
      Almeno Battisti ha avuto la buona pensata di ritirarsi al momento giusto e fare quel che amava fare lontano da tutto e da tutti, senza disturbare, ma anche senza sbagliare un’uscita (discografica).
      Poi se lei la pensa diversamente… beh.. siamo tutti qui e “E tutti insieme vogliam vedere il Braccobaldo Show”, come si dice.
      Sappiamo bene che un capolavoro non si misura in copie vendute.
      E l’onestà intellettuale, assieme alla capacità di giudizio, non sono a beneficio di chiunque…

      (P.S. Non sono quello che parla dell’album di Masini)

      1. “Vuoi prendere un treno di notte pieno di paralumi e di damasco per dormire, se no a che serve un treno?”

        I “dischi bianchi” di Battisti non si toccano e per fortuna c’è chi, come voi, ne parla!

      2. Il fatto che dopo trent’anni ci sia chi li definisce “pallosissimi, inconcludenti e floppissimi” è la dimostrazione della grandezza dei dischi bianchi di Battisti. E la cosa più sconvolgente è che se si pensa a tutti coloro che hanno avuto successo, anche internazionale, dagli anni 90 in poi (i vari Ramazzotti, Pausini, Bocelli e via dicendo) si ha la dimostrazione palese di quanto Battisti – con o senza Mogol, è indifferente – sostanzialmente non lo si ascolta più.
        Perché il Battisti “mogoliano” vale migliaia di volte questi zozzoni sopracitati. E in pieno periodo mogoliano, Lucio tirò fuori un disco immenso come “Anima latina”, che il nostro simpatico Zio Tom definirebbe “floppissimo” visto che non contiene alcun successone noto ai più (e quindi nemmeno a lui).
        Quanto ai dischi bianchi, la definizione perfetta è di quelli di Ondarock: “cattedrali nel deserto”.

  4. A me il disco piacque, e mi piace ancora : non un capolavoro ma neanche la mediocrità di cui tanti parlano.
    O forse mi piace ancora più l’idea di uno che, all’epoca, pur avendo in mano tutta la f*** d’Italia grazie alle sue scialbe canzonette, decide di punto in bianco di fregarsene per provare a fare quel che ” voleva ” fare, ben conscio di andare a perdere quasi tutto …

  5. Un disco che all’epoca amai. Forse più per il concetto di “autore pop che si converte alla vera musica” che per il valore dell’opera (per me resta un ottimo lavoro, comunque).

  6. Francamente mi chiedo chi diavolo possa sinceramente riabilitare un album tanto mediocre. Forse occorrerebbe ricordare che nella seconda metà degli anni novanta uscirono capolavori in ambito rock/hard rock/metal del calibro di Imagination From The Other Side e Noghtfall In Middle Earth (Blind Guardian), The Gallery e Projector (Dark Tranquillity), The Accident Of Birth e Chemical Wedding (Bruce Dickinson), Velvet Darkness They Fear e Aegis (Theater Of Tragedy), A Pleasant Shade Of Velvet Darkness They Fear (Fates Warning), Land Of The Free e Somewhere Out In Space (Gamma Ray), tutti gli splendidi album degli In Flames (da The Jester Race a Colony), Draconian Time e (soprattutto) One Second (Paradise Lost), Roots (Sepultura), The Wake Of Magellan (Savatage), Vision e Infinite (Stratovarious), Tuonela (Amorphis), Alternative Four e Silent Enigma (Anathema),Metropolis 2 (Dream Theater),In This Room, ma anche il bellissimo predecessore Tears Laid In Earth (The Third And The Mortal), per non parlare dei torinesi Rhapsody… insomma, per non farla troppo lunga, c’era all’epoca tanta di quella carne al fuoco (non solo in ambito rock e dintorni, si pensi al grande successo dell’Italo dance) che… ma chi vuoi che se lo inc*****e questo qui?

      1. E’ un po’ tutto vero quello che ho letto ma in Grignani c’era e c’e’ del talento: non importa dove esso sfocisse, se nel grunge degli anni 90′ o, nel cantautorato.

        La hgenialita’stava nel mischiar ambedue le cose con uno stile tutto suo: il “tutto suo”, ha fatto e fa’ di Grignani il talento di cui parlavo che come tanti taenti non sempre si e’ espresso su alti livelli anche perche’ poi si e’ dedicato al mainstream.

        In realta’ anche nella Fabbrica di plastica ci sono grossi difetti cosi’ come cosd geniali tra il grunge, tra il pop e il cantautorato.

        L’ intreccio era geniale ma nel cpmplesso del disco non mancavano le cadute.

        Il talento di Grignani lo.si puo’ comprendere solamente prendendo i brani singoli, ed estrapolandoli quasi cpme in una serie di raccolte divise per periodi.

        Si scoprira’ un sig. Artista per ben 8-10 dischi!

        E si scoprira’ che il disco piu’ grunge e’ stato campi di popcorn.

        Il disco piu’ misto tra cantautorato e grunge, La Fabbrica di Plastica e il disco piu’ in stile Rock-italiano-British un terzo che in realta’ non e’ mai esistito.

        In mezzo a questi tre dischi c’e’ un gran concerto di Grignani del periodo anni 90′, molto grunge sempre con influenze cantautoriali.

        Per poi passare ad un nuovo quinto disco (mai esistito ma frutto di questa ipotetica raccolta), di tutto rispetto e con una buona dose di pazzia persino nel cantautorato.

        Il settimo disco (mai esistito), e’ un album di Cover da cantautorato con la C maiuscola non privo di piccoli spunti elettrici.

        Grignani in ogni suo album (anche quelli piu’ brutti), ha sempre inserito un paio di brani-chicche e solo ascoltandolo bene si puo’ capire il suo talento (non genio ma talento).

        Gli album messi in questo modo non hanno nulla di meno rispetto hai gruppi sopra citati: lo stile-canzone-song che Grignani ha sempre seguito non rappresenta una diminuzio in quanto David Bowie seguiva lo stile-song.

        L’ importante e’ farlo bene: non sto’ minimamente paragonando Bowie e Grignani ci mancherebbe ma alcuni brani di Grignani non hanno nulka di meno ripettp a quelli dei bravissimi Afterhours.

        Grignani ha fatto ben 8-10 album di spessore se si sommano le canzoni che lui ha sparso tra un album e l’ altro: isuo difetto e’ stato quello di non aver saputo (o, di non aver voluto), studiare delle scalette apposite.

        Ma tale cosa lo puo’ fare da solo un’ ascoltatore attento: cosi’ come certe canzoni di Grignani rimangono per me inascoltabili.

        Ma sono quelle ascoltabili che fanno l differenza e che lo rendono un talento (o, l’ hanno reso un talento).

        Un talento per molti versi inespresso, rimane comunque e pur sempre un talento degno di nota.

        Il mio lavoro (per me che ascolto tutt’ altre cose), e’ stato quello di studiarlo e di raccogliere i suoi brani migliori.

        Alla fine 10 dischi di buona/ottima fattura in in 30 anni fanno una media di 1 disco ogni 3 anni: vale a dire una produzione degna per ben 25-30 anni che merita il giusto risalto.

        Rimangono anche le brutte produzioni ma anche sti cavoli: basta prendere sempre il meglio da qualsiasi artista per goderne il piu’ possibile.

        E’ difficilissimo scrivere qui sopra con il cell: mi scuso gia’ per le imprecisioni grammaticali e di esposizione.

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