Come passa il tempo. Se nel 1995 si fosse nominato il nome di Gianluca Grignani a chiuque ascoltava rock alternativo, nel migliore dei casi ti avrebbe riso in faccia togliendoti il saluto, non apprezzando troppo il senso dell’umorismo. Oggi dopo 25 anni invece ti risponderebbe con un sonoro: «La fabbrica di plastica è un capolavoro incompreso della musica italiana», «un album rock come mai ce ne sono stati in Italia», o roboanti apprezzamenti del genere. Ma come è stato possibile che uno dei più sonori flop della discografia nostrana sia diventato un feticcio di culto?
Come nelle migliori storie facciamo un passo indietro: siamo a metà degli anni ’90 e Gianluca Grignani, giovanissimo cantautore cresciuto in Brianza tra Beatles, Elvis Presley e Lucio Battisti, è la nuova stella della musica pop italiana. Scovato e coccolato dal maestro Vince Tempera e Massimo Luca (chitarrista che ha suonato con tutti i grandissimi nomi della musica leggera nostrana), che per la cronaca sono anche gli autori della sigla di Goldrake (assieme al paroliere Luigi Albertelli), tra il 1994 e il 1995 piazza una manciata di inni per ragazzine che inondano le radio italiane e sudamericane con La mia storia tra le dita, Destinazione Paradiso (brano d’esordio al Festival di Sanremo del 1994 nella categoria Nuove Proposte che raggiunse solo un mesto 6° posto) e Falco a metà. In fondo era bello, giovane e con quell’aria da maledetto-soft che faceva impazzire le ragazzine e non spaventava le mamme, sorta di anello di congiuzione tra Raz Degan e Massimo Di Cataldo. Un “prodotto” fresco, genuino, ma anche rassicurante, decisamente sulla scia del cantautorato radiofonico alla Eros Ramazzotti, Luca Carboni e Biagio Antonacci. Nulla di male sia ben chiaro.
Ora immaginatevi a 23 anni di aver raggiunto il vostro sogno nel cassetto: musicista di successo, improvvisamente ricco, apprezzato dalla critica, con donne a profusione e una carriera spalancata da futura superstar. Bastava continuare a cantare quelle canzonette di amori non corrisposti e piccoli disagi giovanili con testi sempliciotti e frasi da Smemoranda e il gioco era fatto. Invece no.
Forse davvero esasperato per essere diventato un bamboccio per ragazzine con i brufoli (come dimenticare l’esibizione al Festivalbar del 1995 in cui, senza badare al playback si getta scazzato tra le grinfie delle fan urlanti), forse per poca umiltà, forse per genuino interesse verso un altro genere di sonorità (o magari tutte e tre le cose insieme), ecco che decise di ricostruirsi una verginità artistica come menestrello del rock alternativo italiano.
Giusto per mettere le cose in prospettiva, la scena cui ambiva far parte proprio in quegli anni partoriva dischi come Catartica e Il vile (Marlene Kuntz), Ko de mondo e Linea gotica (C.S.I.), Germi (Afterhours), Mantra e Psycorsonica (Ritmo Tribale), Un mondo nuovo (Disciplinatha), Contro ogni tempo (Movida), Il rumore delle idee (Settore Out), Vita in un pacifico mondo nuovo e Non esistere (Fluxus), Radio (Interno 17), Karma e Astronotus (Karma), Lungo i bordi (Massimo Volume) o Acidi e basi (Bluvertigo). Insomma tutt’altro sport rispetto alle canzonette ben fatte ma super convenzionali del giovane virgulto del pop.
Con la fissa dei Radiohead di The Bends (uscito proprio nel 1995) usato senza vergogna come vero e proprio feticcio per il nuovo disco, Gianluca Grignani assoldò una buona backing band tra cui spiccano alla chitarra il session man Massimo Varini (apprezzato tra i grossi nomi del pop italico, ma che la musica rock nemmeno sapeva che cosa fosse a parte Vasco Rossi, vabbè) e il terremotante Mario Riso alla batteria (già con i R.A.F. e Movida, ma anche session man prezzemolino che ha collaborato con Jovanotti ma soprattutto nell’album di hair metal all’italiana Rock normale del DJ-rocker Nikki). Il risultato è una sorta di concept autobiografico sui conflitti interiori di una rockstar in cerca d’identità, il tutto con lo zampino dell’arrangiatore e produttore Greg Walsh che ricordiamo con Heaven 17, The Associates, Amii Stewart e soprattutto collaboratore di lunga data di Lucio Battisti dalla fine degli anni ’70 sino ai primi anni ’90.
La fabbrica di plastica è un disco che suona ruvido, spigoloso, sperimentale e sfacciato… ma solo per il fan medio del pop radiofonico italiano. Non ci vuole un orecchio troppo raffinato per rintracciare la scrittura tipica dei successi di Gianluca Grignani solamente rivestiti da strati di chitarre elettriche tra John Greenwood dei Radiohead e scorie post-grunge alla Bush (il bestseller Sixteen Stone venne pubblicato nel 1994) che sono più un rumoroso contorno che vera ciccia. Basta ascoltare la versione acustica di La fabbrica di plastica (lato B del singolo) e le reincisioni del 2016 nella raccolta Una strada in mezzo al cielo per ascoltare in forma più onesta canzoni come L’allucinazione (con una provvidenziale Carmen Consoli), Solo cielo, Più famoso di Gesù (chiara citazione di John Lennon, con Fabrizio Moro), Galassia di melassa (con Federico Zampaglione), La vetrina del negozio di giocattoli (per tacere della tragica versione di La fabbrica di plastica con Ligabue) che dischiudono tutta la loro anima di tipica canzonetta di musica leggera (qui molto meno a fuoco che nel disco di debutto) con testi didascalici, continuamente auto-referenziali e composti da pseudo-slogan da diario di prima liceo.
Un disco come La fabbrica di plastica merita di essere ricordato per il coraggio (o la sbruffonaggine?) nel mettersi in gioco, ma il rock (alternativo) per il pur volenteroso Gianluca Grignani è più una sorta di Stella Polare piuttosto che una vera indole o necessità artistica. Non troppo malignamente potremmo interpretare l’opera come un capriccio da ragazzino, piuttosto che un genuino desiderio di svolta. Tranne sporadici episodi discreti come la title track, Solo cielo e La vetrina del negozio di giocattoli il disco affonda tragicamente tra il banalotto e lo scarto: L’allucinazione (sfacciata riscrittura di Una storia tra le dita, alla faccia della svolta “rock”), Galassia di melassa (che mischia sensazioni quasi post rock a un ritornello da Festivalbar), Testa sulla Luna (riempitivo buttato nel mucchio per fare numero), l’agghiacciante funk-rock dozzinale di Rok star (perché mai senza “c”?) e intermezzacci come Fanny e Il mio peggior nemico.
Unico brano davvero degno di nota è Qualcosa nell’atmosfera che se fosse stato utilizzato come singolo di lancio avrebbe potuto dare un po’ di credibilità all’operazione, invece viene nascosto come traccia fantasma dopo 10 minuti di silenzio in fondo al disco. Un inspiegabile autosabotaggio.
Del Grignani-rock all’epoca non fregò nulla a nessuno, né alle ragazzine che leggevano Cioé, né a chi ascoltava alternative rock, finendo per vendere nemmeno un decimo rispetto al disco di debutto. Cosa ancora più strana il fatto che non fregò nulla nemmeno a Grignani stesso che già con il successivo Campi di popcorn del 1998 mise rapidamente da parte le chitarre distorte ma vendette ancora meno visto che l’onda lunga di Destinazione Paradiso era svanita e le ragazzine avevano trovato altri idoli pop in Alex Britti e Daniele Groff. Fortunatamente per lui la rinascita commerciale arrivò nel 1999 grazie al provvidenziale Festival di Sanremo e poi esplodendo in radio e discoteca nel 2002 con quell’abominio de L’aiuola, che consacrò il ritorno alla “fabbrica di plastica” del figliol prodigo nella quale ora, saggio trentenne, ci sguazzava divertito. Beato lui.
Ma torniamo alla domanda iniziale: perché La fabbrica di plastica oggi viene venerato come una sorta di totem della ribellione rock del vero artista contro la mefistofelica macchina della discografia, interessata solo a creare successi radiofonici usa e getta? Senza aver nulla contro Gianluca Grignani che sembra davvero un personaggio genuino, il disco oggettivamente non ha spostato di un millimetro la storia della musica italiana, non ha portato innovazione, non è riuscito a raggiungere le masse, non ha lasciato tantomeno brani memorabili, è stato anzi una parentesi rapidamente ripudiata nella carriera di artigianato pop dell’autore. Sarà il fascino delle sfide impossibili, sarà che si simpatizza spesso con i perdenti o sarà semplicemente che il tempo ci fa ricordare il passato con tenera malinconia?
Se vuoi ascoltare la discussione su La fabbrica di plastica clicca qui per riprodurre l’episodio del nostro podcast Infedeli alla linea.