Il 1988 fu senza ombra di dubbio un’annata pregna di memorabili fatti: il trionfo di Massimo Ranieri con Perdere l’Amore, canzone tutt’ora in auge sotto le docce di tutto il mondo, il sesto posto di Mino Reitano con l’imprescindibile Italia, l’ennesimo secondo posto di Toto Cutugno, l’esordio di futuri big quali Biagio Antonacci e Mietta. Ma perché parlare di tutto questo quando posso dedicare il mio tempo a I Figli di Bubba?
Nonostante quell’edizione fosse tutt’altro che sottotono, nessuno li ricorda o cita mai. Forse perché la formazione era composta da emeriti sconosciuti? Mmm, vediamo… c’era un tal Mauro Pagani, un certo Franz Di Cioccio e poi i signori Enzo Braschi e Sergio Vastano… Meglio fermarsi un attimo. Delle quattro persone nominate finora, almeno due sono classificabili come monumenti viventi della musica italiana: Pagani e Di Cioccio, entrambi membri della PFM (Di Cioccio ne è a tutti gli effetti il fondatore) entrambi polistrumentisti, cantanti, geniali autori (e compositori tra le mille altre cose della splendida colonna sonora di “Attila Flagello di Dio”).
Braschi e Vastano non necessitano di presentazioni. D’accordo, la loro capacità di far ridere è sempre dipesa dalla quantità di negroni trangugiati prima di vedere una loro trasmissione, ma è impossibile parlare di comicità italiana anni ’80 senza nominarli. Aggiungiamo a questi quattro altri tre curiosi personaggi: Roberto Manfredi (scrittore, produttore e sceneggiatore) e i giornalisti Roberto Gatti e Alberto Tonti. Insomma, che cosa ci si poteva aspettare da questo trust di cervelli? Beh, immagino qualcosa lontano anni luce da Nella valle dei Timbales.
Per la verità, dietro a una melodia presa a prestito da Tropicana del Gruppo Italiano e un testo decisamente surreale, il brano è una critica allo yuppismo imperante, tematica molto ricorrente verso la fine degli anni ’80. La valle dei Timbales è un’isola felice, lontano dal logorio della vita moderna, dove Adriano Celentano non canta, non c’è la Carrà e non bisogna compilare un 740: praticamente un inno ai paradisi fiscali come le isole Cayman.
Dopo una vita di risparmi, di bot e cct
Io devo proprio riposarmi, andare via di qui
Fanculo all’esclusiva, fanculo alla tivù
Saluti a tutti quanti, non vi vedrò mai più
Andrò laggiù nella valle dei Timbales
Tra peones, marones, salmones, daiquiri e bon bons
Laggiù dove la femmina è procace
Vivace, mordace, fugace, vorace lo so
Laggiù senza il sette e quaranta, Celentano non canta
La Carrà non c’è più
Laggiù con le dita nel naso, le lenzuola di raso
E il mio amore Mariù
Mi mancherete tutti lo so
Chissà come farò senza la faccia di Andreotti
Non sopravviverò
Senza lasagne surgelate, la maschera antigas
Le ferie intelligenti, la turbo e l’ananas
Andrò laggiù nella valle dei Timbales
Tra peones, marones, salmones, daiquiri e bon bons
Laggiù dove la femmina è procace
Vivace, mordace, fugace, vorace lo so
Laggiù senza colpo ferire
Sdraiarmi a dormire
Laggiù con la man nella mano
A guardare lontano
Senza sapere perché
Laggiù con le dita nel naso, le lenzuola di raso
E il mio amico Tommaso
Laggiù senza colpo ferire
A sdraiarmi e dormire
E pensare un po’ a voi
Laggiù lontano lontano
Io vi passo la mano
E vi saluto ancora un po’.
Troppo poco demenziali per poterli considerare a tutti gli effetti colleghi di Elio e Le Storie Tese, troppo poco impegnati per considerarli un gruppo “serio”, troppo talentosi i componenti per fregiarsi almeno del titolo di gruppetto meteora. Forse è per questo che nessuno li ricorda? Che poi, ad essere onesti, in classifica si piazzarono quattordicesimi su un totale di 26 concorrenti. Più che onesto.
Dopo sanremo il gruppo incise un album dal titolo Essi, la copertina strepitosa con taroccamento del logo Esso. Geniale. Dopodiché tutti tornarono alle cose a loro più congeniali: Pagani e Di Cioccio tornarono a fare i musicisti impegnati, Mafredi, Gatti e Tonti alla scrittura, Braschi si dedicò allo studio dei nativi americani e Vastano… boh… però qualche anno fa è finito all’Isola dei Famosi.
Dimenticavo di precisare che che il gruppo prese il nome da Bubba, un guru immaginario che lasciò le sue filosofie nel testo sacro la Bubbia, ancora oggi sconosciuto.
Un’ultima curisità per musicisti feticisti: Roberto Gatti, durante l’esibizione all’Ariston, suonava uno strumento chiamato “bubbafono”, un parallelepipedo di legno con pulsanti e manopole che emetteva suoni a casaccio, diversi a seconda della pressione esercitata con i polpastrelli. Di quello strumento ne esitono solo due esemplari al mondo quindi se scoprite che un vostro amico ce l’ha siete assolutamente legittimati a sottrarglielo con l’inganno!