«Dove c’è Gigione non c’è problema». Così recita un claim del celebre cantante folk rock partenopeo, Luigi Ciaravola, meglio noto secondo alcuni (non si sa bene chi) come “il Bruce Springsteen di Boscoreale”, re di sagre e feste paesane campane. Omonimo a questo motteggio è anche un documentario del 2008 di Ivano De Simone e Stefania Spanò, che tratteggiava la figura di Gigione soprattutto tramite racconti personali e testimonianze del folto ed eterogeneo pubblico che lo segue durante ogni esibizione dal vivo o nei programmi TV trasmessi da emittenti locali.
Probabilmente sarà partito anche da questa suggestione il giovane regista sannita Valerio Vestoso, che ha ideato e prodotto il docufilm Essere Gigione: L’incredibile storia di Luigi Ciaravola, uscito nele sale italiane a inizio 2018.
Apparentemente, un progetto del genere può sembrare facile ma in realtà sul “fenomeno Gigione” e famiglia c’è talmente tanto da dire che non deve essere stato affatto semplice fare una cernita e dare al tutto una direzione, perché in questi casi si rischia sempre di perdere qualche pezzo fondamentale. E in effetti, seppure il documentario sia molto valido e anche piacevole da vedere, lascia con l’amaro in bocca, come se mancasse qualcosa, tanto da far avvertire quasi il bisogno di un sequel, magari incentrato sulla vita della prole di Gigione, gli indefessi Jo Donatello e Menayt (che in caso ve lo stiate chiedendo, si chiama Filomena detta Mena e quindi divenuta Menayt).



Vestoso ha raccontato in un’intervista la lunga gestazione di Essere Gigione, anche perché prima di acconsentire al progetto, Gigione stesso ha voluto informarsi bene anche e soprattutto sul regista. Una volta svolta la parte burocratica, per così definirla, Vestoso ha imbracciato la telecamera e ha seguito Gigione dietro le quinte dei suoi concerti, riprendendo il suo staff mentre preparava pasta al pesto discettando di come è lavorare in quest’ambito, poi lo ha seguito a casa, in situazioni di quiete domestica, con la moglie che preparava anche lei pasta, stavolta al forno, dunque ha seguito la folla di seguaci, intervistando il capo del Gigione Fan Club, l’inquietante Mirko da Gubbio, infine lo ha mostrato mentre si prepara per i live, un po’ stanco ma comunque infaticabile, panciuto, il volto segnato, perché ha raggiunto anche lui un’età considerevole.
La forza di Gigione è il suo essere sempre uguale a se stesso, di dare sempre al suo pubblico ciò che desidera da trent’anni a questa parte, testi pecorecci e dai doppi sensi birichini, donne scosciate, santi e madonne, il tutto nel rassicurante ambiente di una sagra paesana, con porchetta e salsiccia a buon mercato e vino casereccio.
Quel che emerge dal documentario è il ritratto di una vera rockstar regionale, con un afflato artistico ma anche imprenditoriale, perché da un lato Gigione vive per il suo pubblico non disertando un concerto e dall’altro da ottimo imprenditore ha costruito un piccolo impero in cui dà lavoro non solo ai propri figli, ma anche a un numero considerevole di persone che lui tratta come fossero parte della famiglia, facendo sì che siano ben felici di lavorare per lui.
Il Nostro non ha alcuna remora a paragonarsi a grandi artisti della musica italiana e anzi a considerarsi anche migliore di molti di questi, uno tra tutti Vasco Rossi, che fa solo «centomila persone» ai concerti, contro i suoi «un milione e mezzo». Non ci è dato sapere quale sia la fonte di questi dati, ma noi gli crediamo sulla fiducia.
In effetti, in un mondo in cui il mercato musicale è in crisi da tempo immemore, l’unico che riesce a svernare sempre alla fine è proprio Gigione e forse questo documentario aiuta a comprendere bene il perché di fama, successo e amore incondizionato del suo fedelissimo pubblico.